“Mostri”,“untori”, “rivelazioni choc”: le persone sieropositive tornano sulle prime pagine dei giornali come se le norme deontologiche elaborate dall’ordine dei giornalisti e la tutela della privacy non esistessero. L’analisi di Pride.

(prima pubblicazione Pride aprile 2017)

 

Che cosa sta succedendo al mondo dell’informazione nei confronti di gay e persone con HIV? Leggendo alcune pagine di giornale o guardando certi servizi in TV, sembra di venire catapultati in un’epoca di oscurantismo moraleggiante. Per rappresentare la comunità omosessuale immagini riprese di nascosto in una dark room, e la parola “untore” basterebbe per raccontare cosa significa vivere con l’HIV…

Già da mesi il caso di Valentino T. ha aperto le danze. Valentino è un giovane di Acilia, in provincia di Roma, accusato di avere deliberatamente trasmesso l’HIV a decine di ragazze. Non un caso legato al mondo gay, dunque, ma che ha importanti ricadute su tante persone che vivono con l’HIV, gay e non. Questo non certo ha frenato certi giornalisti a utilizzare termini come “mostro” o “untore”. Non solo: poche settimane dopo il suo arresto avvenuto a dicembre 2015, ecco apparire sui giornali nome, cognome, indirizzo e persino fotografie. Fermo restando che, se sarà riconosciuto colpevole nel processo appena iniziato nessuno può giustificare il suo comportamento e inevitabilmente dovrà pagare, ma rivelare lo stato di sieropositività di una persona non era reato?

Stessa cosa per uno dei due ragazzi romani accusati di aver ucciso Luca Varani durante un rapporto sessuale a tre sotto effetto di sostanze: poche settimane fa il periodico Giallo è entrato in possesso delle sue cartelle cliniche, incluso il test HIV che il giovane ha accettato di fare appena entrato in carcere e che è risultato positivo. La notizia è stata data in prima pagina condita da espressioni come “rivelazione shock” e “l’orrore non ha fine”, alludendo al fatto che la notizia farebbe “tremare” la “Roma bene” che frequentava i “festini a base di sesso e droga” organizzati dal giovane. Come se chi fa sesso sotto effetto di sostanze senza usare preservativi si possa sentire immune dal rischio di prendere l’HIV! Ma soprattutto, dove è finita l’attenzione dei media per la tutela della privacy, sancita anche dalle norme deontologiche elaborate dall’ordine dei giornalisti?

“In realtà – spiega Pasquale Quaranta, giornalista curatore della pagina Facebook Osservatorio Media e Omosessualità – il nuovo testo unico dei doveri del giornalista nell’allegato 1 afferma che ‘Nel raccogliere dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico’. In altre parole, il giornalista può aver ritenuto che fornire informazioni sull’imputato che consentissero la sua identificazione fosse di ‘interesse pubblico’ perché avrebbe permesso ad altre sue partner sessuali di riconoscerlo e quindi sottoporsi al test per verificare di non aver contratto l’infezione anche loro. Resta tutto da dimostrare, tuttavia, che proprio questa strategia sia la migliore dal punto di vista dell’interesse pubblico. Esistono decine di ricerche che dimostrano come la criminalizzazione di chi vive con l’HIV, cioè la possibilità di essere citati in giudizio se si fa sesso con qualcuno senza informarlo del proprio stato di sieropositività, sia un deterrente per fermare la diffusione dell’infezione: la criminalizzazione spinge le persone con HIV al silenzio e all’invisibilità anziché a parlarne con i propri partner. Inoltre fomenta lo stigma nei confronti di chi vive con l’HIV e sappiamo che lo stigma è una delle barriere più potenti per allontanare dal test. In altre parole, rivelando pubblicamente tutti i dettagli utili all’identificazione dell’imputato, il giornalista potrebbe aver agito contro l’interesse pubblico, più che in favore di esso. Avrebbe sicuramente fatto un servizio utile se invece avesse usato questa occasione per raccomandare a chiunque abbia avuto anche solo un rapporto sessuale senza preservativo di fare il test per l’HIV e le altre infezioni a trasmissione sessuale. Temo che questo caso sia un’altra occasione mancata per tornare a dare informazioni rilevanti e scientificamente fondate su un argomento così delicato”.

In effetti, il modo in cui molti media hanno affrontato il caso del giovane di Acilia riconduce al tema della criminalizzazione. Questo termine fa riferimento alle leggi, vigenti in alcuni paesi, che obbligano una persona con HIV a rivelare il proprio stato ai suoi partner sessuali. Se non lo fa, in alcuni paesi può essere perseguito anche se l’altra persona non si infetta. Si chiama “criminalizzazione dell’esposizione” per indicare che il reato sta nell’aver esposto qualcuno al rischio di contrarre l’HIV, indipendentemente dal fatto che l’infezione avvenga o meno. In Italia – per fortuna – non ci sono leggi di questo tipo e rivelare il proprio stato di sieropositività non è obbligatorio. Il caso di Valentino, come la decina di casi che lo hanno preceduto (alcuni dei quali riportati sul Global Criminalisation Scan, www.criminalisation.gnpplus.net), si basano sull’accusa di lesioni personali gravissime. In termini non giuridici, quando una persona con il suo comportamento provoca danni fisici o mentali a un’altra persona volontariamente oppure anche solo per aver trascurato le cautele necessarie per evitarli. Basta sapere che è possibile danneggiare l’altro, e se questo avviene si è in colpa.

“Purtroppo proprio qui sta un punto cruciale – commenta Massimo Farinella, responsabile salute del circolo di cultura omosessuale Mario Mieli di Roma – La legge sembra dire che se sai di essere positivo e infetti qualcuno facendo sesso con lui puoi essere denunciato. Se invece non sai di esserlo, nessuno ti può portare in tribunale. Qualcuno potrebbe pensare ‘allora meglio non fare il test’, ma si trascura il fatto che se non si sa di avere l’HIV, non si può intervenire in tempo con la terapia antiretrovirale che consente di evitare ogni problema di salute connesso con l’infezione. Non solo: oggi sappiamo da diversi studi scientifici che chi è in terapia antiretrovirale costantemente, abbassa la quantità di virus presente nel suo corpo a livelli tali che gli strumenti normalmente utilizzati non riescono nemmeno a individuarlo; in queste condizioni, non può trasmettere il virus ai suoi partner sessuali, anche nel caso che faccia sesso senza usare il preservativo. A quel punto non può nemmeno più essere accusato di niente, perché il rischio che trasmetta l’infezione a qualcuno è praticamente zero. Quindi è importante fare il test prima possibile per poter iniziare subito la terapia: fa bene alla propria salute ed evita di trasmettere ulteriormente il virus”.

Sembra quindi che il linguaggio usato dai media per affrontare questo caso vada proprio nella direzione opposta rispetto all’“interesse pubblico”. Sbattere in prima pagina la persona sieropositiva etichettandola come “mostro” allontana dal test e quindi dalle terapie che, abbassando la carica virale, frenano la diffusione del virus. Ma non solo: “Indicare le persone con HIV come le uniche responsabili della trasmissione del virus vuole dire deresponsabilizzare tutti e tutte – aggiunge Massimo Oldrini, presidente nazionale della Lila – È come se si esentasse chi è negativo all’HIV, o pensa di esserlo, dall’assumersi in prima persona la responsabilità della propria protezione e della propria salute. Si rischia inoltre di fornire un alibi alle autorità pubbliche che, pur avendo il dovere di promuovere comportamenti sicuri, test, diritti, terapie, restano ampiamente latitanti sul fronte della prevenzione. Se tra i doveri della stampa c’è anche quello di vigilare sul buon funzionamento delle istituzioni, in questo caso si rischia invece di moltiplicarne gli errori”.

Oldrini critica anche l’uso del termine “untore”: “Categorie come ‘Untori o peste del 2000’ hanno drammaticamente segnato le vite di tante persone e pregiudicato gravemente l’adozione di quelle poche, semplici, necessarie, misure di prevenzione e sesso sicuro che, tutti e tutte, indipendentemente dallo stato sierologico, siamo chiamati ad adottare. I pregiudizi, in questi trent’anni, hanno ucciso quanto e più del virus facendo perdere anni preziosi per la lotta all’infezione”.

Anche Sandro Mattioli, presidente di Plus, l’associazione di persone LGBT sieropositive, denuncia il linguaggio utilizzato “che sottende una criminalizzazione pregiudizievole e senz’appello delle persone sieropositive. È ora che i giornali, cartacei e non, autorevoli e frivoli, affrontino il tema dell’HIV con strumenti diversi da quelli degli anni Ottanta. Come se la parola HIV legittimasse qualsiasi forma di fantasia. In realtà, quando si parla di un’infezione, di fantasioso c’è ben poco. HIV è un tema medico-scientifico e come tale dovrebbe essere trattato, senza mai sottovalutare l’aspetto sociale. Sfruttare l’infezione per fare notizia significa ferire le decine di migliaia di cittadini italiani diagnosticati. Decine di migliaia di persone per le quali l’unico ‘orrore’ è costituito dalla paura di essere discriminate”.