Incontriamo Antonello Dose, conduttore del programma radiofonico Il ruggito del coniglio, che si racconta nell’inedita veste di scrittore nel libro La rivoluzione del coniglio in cui parla della fede buddista, della sieropositività e di sesso.

(prima pubblicazione Pride giugno 2017)

 

Da 22 anni su Rai Radio2 conduce con Marco Presta Il ruggito del coniglio che dalle 7:45 alle 10 del mattino dispensa massicce porzioni di buonumore, aiutandoci a cominciare al meglio il nuovo giorno: Antonello Dose è da qualche mese in libreria con La rivoluzione del coniglio. Il teatro di ricerca, sotto l’egida di un grande maestro come Eugenio Barba, è dove ha avuto inizio la sua storia professionale che poi, quasi per caso, ha trovato sbocco, avendo come mentore Enrico Vaime, in radio e televisione per le quali è stato ed è autore di numerosi programmi di successo.

Nel suo primo libro Antonello ha deciso di palesare il suo privato con la consueta intelligenza, leggerezza e autoironia che gli conosciamo. È un racconto che dagli anni novanta arriva sino al presente e in cui i temi principali sono la fede buddista, abbracciata con la speranza di poter salvare il suo primo amore ammalatosi di AIDS e in seguito diventata ragione di vita; la sieropositività, trasmessagli da un giovane seminarista poi diventato sacerdote che gli non aveva mai rivelato la sua identità; l’amore per i suoi tre compagni e il rapporto con il sesso, trattato senza falsi pudori e grande sincerità. In queste settimane è in giro per l’Italia a presentare il libro: da Arezzo, nell’ambito delle molte iniziative organizzate da Toscana pride, a Cagliari, Roma e Milano, dove lo raggiungiamo per un lungo colloquio.

Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a scrivere questo libro?
Vedendo quanto può essere fragile la vita, ho pensato che sarebbe stato un peccato non raccontare questa storia di fede iniziata come una tecnica da apprendere, simile allo yoga o al teatro di ricerca dal cui ambito provenivo. In seguito ho scoperto molte cose di me che mi sarebbe dispiaciuto non condividere con gli amici e con il pubblico che mi segue da tanti anni, in particolare la verità sulla mia vicenda umana e l’esperienza buddista.

Perché nel titolo hai usato la parola “rivoluzione”?
Con l’esercizio della preghiera ho cercato di rivoluzionare la mia vita e ho ottenuto dei risultati che sono ripetibili e insegnabili. Rivoluzione è una citazione. Io pratico il buddismo di Nichiren Daishônin all’interno dell’istituto buddista italiano Soka Gakkai. Questo movimento è stato propagato in tutto il mondo dal giapponese Daisaku Ikeda che considero il mio maestro. In un romanzo ha raccontato la sua vita spesa a diffondere questi insegnamenti: si chiama La rivoluzione umana e afferma che un cambiamento nel carattere di un singolo individuo porterà al cambiamento di un paese e alla fine dell’intera umanità. Tutta la teoria buddista si basa sulla certezza che noi e l’ambiente siamo la stessa cosa, mente e corpo sono due aspetti dello stesso fenomeno vita di cui facciamo parte. Se vogliamo vedere un cambiamento all’esterno dobbiamo prima operarlo dentro di noi.

Come ti sei avvicinato a questa religione?
Vengo da una famiglia molto cattolica poi, dato che ero anche un gay represso, è stato devastante fare i conti con il senso di colpa e il peccato e con la sensazione di sentirmi sbagliato. Volendo seguire la religione tradizionale questi conti non tornavano: il tempo passava e provavo sempre più sofferenza. Mi sono allontanato da tutto in una sorta di ateismo moderno. Nel 1990 Piero, il mio compagno e primo amore, era sieropositivo e si stava ammalando: il dolore di non poter far niente per la persona che mi aveva insegnato ad amare mi ha spinto a cercare qualcosa di benefico per lui. Un’amica mi ha proposto la pratica buddista da cui aveva tratto giovamento. Ho iniziato ad approcciarmici tecnicamente come un esercizio, poi ci ho preso gusto perché succedono tante cose inattese. Solo Il cercare di salvare l’uomo che amavo avrebbe potuto spingermi a uno sforzo nella fede così combattivo.

Il lettore, pur interessato, potrebbe avvertire un certo scoraggiamento constatando quanto la pratica sia impegnativa e rigorosa…
Mi rendo conto di esser stato un po’ radicale ma questo è il mio approccio. Venendo dal training con i miei maestri teatrali, ero abituato all’idea che se vuoi conseguire un risultato devi lavorare molto. Conosco persone, tra queste il mio compagno Fabrizio, che praticano solo quando ne hanno desiderio e ottengono comunque risultati. Alcuni non possono pregare oltre 5 minuti perché ne rimangono troppo scossi. Ognuno fa storia a sé, ma se hai un problema grosso ci devi mettere uno sforzo grosso perché non si tratta di formule magiche. Ora mi rendo conto che a me in quanto gay ha fatto bene questa pratica: avere usato questa specificità e in seguito quella di essere sieropositivo per creare qualcosa di utile (all’interno della nostra scuola ho fondato “Arcobalena” un gruppo LGBTQI, e aiutato tanti amici) che mi ha liberato dal disagio di essere gay e dall’omofobia interiorizzata.

Quale ragione attribuisci al fatto che il buddismo stia facendo sempre più proseliti anche in Italia?
Le scritture direbbero che è l’insegnamento più efficace in quest’epoca di conflitti crescenti. Il cristianesimo va benissimo e rispetto chi lo professa ma, come molte religioni, tu preghi e speri che la cavalleria ti venga in aiuto. In questa pratica più laica il lavoro lo devi fare su di te. Qui preghi e tiri fuori la tua buddità dentro di te: solo tu puoi guarire e risolvere la tua vita. Certo, ci possono volere mesi, anni per arrivare a questa consapevolezza ma quando ci arrivi hai imparato e non cadi più in certi errori. Credo che il motivo principale sia la praticità di applicazione e il fatto che funzioni. Pregando per un tuo desiderio scopri magari che quel desiderio non era poi così importante e ti rendi invece conto di avere capacità insospettate. Scopri di poter essere felice al di là delle circostanze che hai intorno e questa è una grande liberazione.

Il tuo vissuto personale ti ha fatto conoscere ministri della chiesa cattolica non proprio esemplari: come la vedi oggi anche in riferimento al suo sommo rappresentante?
Userei lo stesso linguaggio di cuore e di pancia di papa Francesco, innovatore a modo suo: “Chi sono io per giudicare?” L’abito non fa il monaco e questo dappertutto, anche tra i buddisti. Le responsabilità sono sempre personali: non bisogna generalizzare. Non è vero che gli islamici sono tutti terroristi, i gay tutti promiscui, le ballerine tutte ragazze facili: ognuno è un caso a sé.

Nel libro sei stato estremamente sincero nel raccontare il tuo rapporto con il sesso in anni in cui la libertà sessuale non era demonizzata come forse lo è oggi, e affermi che la conoscenza dell’anima e della personalità di un partner passa anche attraverso un rapporto carnale.
Di natura sono una persona estremamente timida anche se, dato il libro, non si direbbe, ma è così. Ho iniziato a fare sesso verso i vent’anni. Arrivare a scoprire di avere una fisicità che poteva essere usata anche per comunicare, per conoscere, scambiare, dare piacere usando tutto quello che la natura ci ha messo a disposizione, è stata una scoperta esistenziale e anche artistica. Per cui rivendico questa libertà di essere e di esprimersi, anche perché vedo che le religioni o culture che pongono regole pretendendo che altri esseri umani le seguano sono fallimentari da tutti i punti di vista. I problemi sulla sessualità che esistono all’interno della chiesa cattolica (le cronache grondano di situazioni eclatanti) dimostrano che la castità è una malattia. Vivere la sessualità in maniera libera, consapevole, senza violenza, con un partner consenziente è cosa bellissima: dà salute, può essere arte, bellezza, anche gioia fine a se stessa. L’HIV ha portato nella comunità trent’anni di pesantezza culturale e di paura a praticare una sessualità libera: adesso possiamo dire che si può tornare a vivere il sesso in maniera serena utilizzando le precauzioni. Vorrei ricordare che non c’è solo l’HIV, ma anche l’epatite (è in corso un’epidemia di quella di tipo A) e torna ciclicamente la sifilide ma soprattutto che le persone non si controllano: è la cosa più stupida perché per queste malattie oggi ci sono le terapie.

Come hai vissuto nel 1994 la scoperta prima della sieropositività e poi la gestione dell’ingerenza del virus nella tua vita?
È sempre uno shock: penso che quando uno prende atto di un problema di salute è sempre una cosa sconvolgente. Sono rimasto alcuni mesi come se tra me e la vita fosse sceso un velo, come se la realtà non mi appartenesse più, come se esistere fosse diventato un problema. La fortuna è stata che l’ho scoperto quando già da anni praticavo il buddismo e avevo pregato molto per il mio compagno che poi era deceduto a causa dell’AIDS. Questo lavoro che avevo fatto per salvare lui è stato quello che poi ha salvato me: provo un’immensa gratitudine per Piero che mi ha fatto motivare così tanto che quando è servito a me affrontare un momento cruciale, ero già abbastanza allenato da riuscire a farcela. Così è andata e sta andando. Forse il buddismo funziona? Fortuna? Non lo so. È significativo che Angelo, il mio successivo compagno, per amore abbia cambiato il suo indirizzo di studi e al momento sia tra le maggiori autorità al mondo che fanno ricerca per una cura definitiva al virus. Dalle notizie che mi arrivano dagli Stati Uniti pare che questa cura sia molto vicina: non solo, con la terapia un sieropositivo è almeno teoricamente non più contagioso, infatti su un campione di 60.000 coppie di cui uno dei due era positivo, senza usare precauzioni nei rapporti non c’è stato alcun contagio. È un dato importante perché evita lo stigma che induce a non far sapere il proprio stato.

Quali cambiamenti hai notato in questi anni in te stesso e nella società, anche con riferimento al lavoro di prevenzione operato dalle autorità sanitarie?
Sono cresciuto negli anni in cui, dichiarandoti positivo, ti si faceva terra bruciata intorno. Ho visto come può far male il non dirlo. Tutto il tuo rapporto con la realtà viene mediato da questa reticenza come ne sono influenzati i tuoi rapporti sociali. Alle riunioni ufficiali in ambiente buddista ho deciso di raccontare questa mia esperienza e negli anni l’hanno ascoltata centinaia di persone: tutti si sono sempre tenuti la notizia per sé e non è mai trapelato nulla pubblicamente. Decidendo di fare il passo del libro ero un po’ timoroso: alcune persone della mia famiglia erano preoccupate che il mio lavoro subisse delle ripercussioni. Non c’è stato invece alcun problema: intorno a me, in famiglia e tra colleghi, oltre ai contatti sui social, sento solo ringraziamenti. È chiaro però che non ho alcuna intenzione di fare il sieropositivo di mestiere. Spero di guarire presto e magari diventare donatore di sangue, nel frattempo sono stato invitato a Siena a un convegno nazionale degli operatori che si occupano di HIV e far parte della giuria per i progetti di comunicazione realizzati dagli studenti medi di tutta Italia. Per quanto riguarda la prevenzione imputo alla politica di non fare praticamente niente: i nuovi contagi stanno aumentando in maniera esponenziale (nella sola Sicilia del 30%) e il silenzio delle autorità è assordante. Dove siete quando c’è da pensare al bene e alla salute delle persone?

Il libro termina con la domanda di matrimonio teneramente rivolta al tuo compagno: cosa ha poi risposto Fabrizio?
Ha accettato: stiamo diventando pazzi con la lista e litighiamo un giorno sì e uno no, ma la data non te la rivelo neanche sotto tortura…