Esce in questi giorni nelle sale cinematografiche Good As You, briosa commedia che prende spunto da un omonimo testo teatrale e racconta due anni della movimentata esistenza di un gruppo di amici gay e lesbiche (qualcuno pure con qualche propensione bisex). Per saperne di più abbiamo intervistato il regista Mariano Lamberti.
Come ti è nata l’idea di girare Good As You?
Mi occupo di tematiche glbt da tempo: nel 1997 ho diretto Storia d’amore in quattro capitoli e mezzo, scritto assieme a Roberta Calandra, e da anni cerco di realizzare un film sulla controversa ma affascinante figura di Mario Mieli. Perciò quando mi è stato offerto di rielaborare questa commedia, ho colto al volo l’occasione per trattare queste tematiche in maniera personale.
Ci dici qualcosa sulla produzione del film, un po’ particolare tanto da coinvolgere anche la Muccassassina…
Più che particolare questa produzione la definirei quasi “eroica”, dato che il film è stato realizzato senza un euro di finanziamenti pubblici ma solo grazie alla caparbietà di Diego Longobardi (anche interprete) e Davide Tovi, i quali dopo grandi sforzi sono riusciti a trovare degli altrettanto coraggiosi finanziatori privati.
Fino a che punto il film è fedele alla pièce teatrale di Roberto Biondi da cui ha preso spunto?
La pièce di Biondi aveva avuto un notevole successo di pubblico e il meccanismo del gruppo di amici gay funzionava molto bene a teatro. Per farne un film però c’era bisogno di dare maggiori sfaccettature ai personaggi e soprattutto c’era la necessità di sviluppare molto di più l’arco narrativo della storia. Fondamentale è stato l’apporto dello sceneggiatore e amico Riccardo Pechini, con cui lavoro da 10 anni, che ha seguito il progetto prima, durante e dopo le riprese.
In passato ci sono state numerose altre commedie gay italiane (per esempio Bionda fragola o Sono positivo). Ti sei ispirato a qualcuna di esse in particolare? E in ogni caso il tuo film cosa presenta di nuovo?
No, non mi sono ispirato a nessuna commedia in particolare. Molti giornali hanno parlato di Good As You come di “prima commedia gay italiana” per il fatto che tutti i personaggi sono gay e lesbiche. Per quanto mi riguarda, invece, sentivo soprattutto l’esigenza di raccontare nel XXI secolo un punto di vista omosessuale che non si riflettesse (per l’ennesima volta) negli occhi di un padre o di una società che ti rifiuta, ma nello sguardo stesso della comunità glbt. I problemi che si trovano ad affrontare gli otto personaggi del film sono infatti legati alla quotidianità, sono problematiche affettive, di relazione e non hanno niente a che vedere con la loro omosessualità.
In altri paesi la commedia a tematica gay è diffusa da anni (Tutti lo vogliono, Peccato che sia femmina o Reinas). Perché in Italia fatica a decollare?
Qui apriamo un capitolo spinoso, ma sinteticamente potrei riassumere che il problema è la mancanza di coraggio e lungimiranza da parte dei produttori. Da noi l’unica tematica omosessuale appetibile (e torniamo al discorso di prima) sembra essere il riproporre, in chiave comica o drammatica, il solito problematico confronto con l’esterno (pensiamo all’“evergreen” del gay che deve fingersi etero per non rivelarsi).
Nel film ci sono doppi sensi, talora anche volgari. Penso in particolare al personaggio di Marco, tra tutti il più sopra le righe. Non era meglio evitarli per non somigliare ai tanti cinepanettoni omofobici?
Marco è stato volutamente tratteggiato come portatore di una comicità oltraggiosa e scorretta. La caratteristica che lo differenzia dagli esempi da te citati è che si tratta di una maschera comica consapevole. Non è “la checca” esibita nella sua “stranezza” per divertire un contesto “normale”, ma un personaggio che, all’interno del suo mondo, gioca con lo stereotipo in maniera autoironica, divertita e appunto consapevole. Lo stesso Marco nel film ha anche momenti di sincera amarezza, inquietudine e disillusione ed è capace di scelte di vita importanti.
C’è una forte ironia sul mondo gay, che però è visto attraverso un prisma un po’ deformante. Secondo te esiste una realtà come quella del film?
È implicito in un certo tipo di commedia esasperare alcune dinamiche e situazioni per sottolinearne il lato comico. La scommessa è quella di mantenere, malgrado il prisma di cui parli, l’umanità e la verità dei personaggi per permettere allo spettatore di riconoscersi e partecipare alle loro vicende.
Si toccano parecchi temi, dalle chat all’inseminazione artificiale. Non c’è magari un po’ troppa roba?
In realtà non volevo trattare dei temi, ma piuttosto mostrare un contesto nel quale si muovono molti omosessuali, compresi alcuni aspetti che, almeno nel nostro paese, non sono mai stati rappresentati sullo schermo. Tipo appunto l’inseminazione artificiale tra un gay e una lesbica, una scelta molto più frequente di quanto si possa immaginare.
Diego Longobardi interpreta il personaggio a cui spetta l’ultima battuta, la più divertente. L’hai voluto tu o il personaggio esiste già nella pièce?
Il personaggio era già stato tratteggiato così nella commedia di Roberto Biondi; io e Riccardo gli abbiamo aggiunto alcune sfumature malinconiche e di ingenua fragilità per cercare di renderlo più tridimensionale.
C’è una scena col gay ride, già visto in altri film, per esempio di Ozpetek. Qui che valore ha?
Qui l’esigenza non era semplicemente di mostrare il gay pride, ma quella di calare al suo interno le dinamiche di due personaggi, Claudio e Adelchi. Mi interessava e divertiva mostrare l’aspetto paradossale di una coppia esasperata, che litiga furiosamente proprio all’interno di una manifestazione che dovrebbe invece celebrare un momento di unione profonda verso un ideale comune.
Hai avuto problemi con gli attori? Qualcuno ha rifiutato dei ruoli così trasgressivi?
Sì, ci sono state alcune defezioni, anche illustri. C’è chi ha chiesto tagli drastici alle scene (anche quelle che non riguardavano il proprio personaggio) per rendere “asessuato” il tutto e chi ha rinunciato, dopo aver già provato i costumi o addirittura aver girato alcune scene.
Come mai avete pensato alle gemelle Kessler per la sigla?
Volevamo usare la canzone di Carmen Miranda The Lady in the Tutti Frutti Hat come hit del film e cercavamo un’interprete che oltre alla grande professionalità rappresentasse un’icona di riferimento della comunità gay con dei tratti di originalità. Le gemelle Kessler rispondevano in pieno a quest’esigenza.
C’è una scena in particolare alla quale sei più legato?
Sì, quella nella quale le quattro coppie si baciano a lungo e appassionatamente, in cui si celebra simbolicamente un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una scena che vuol essere anche un’implicita esortazione a continuare a lottare per far sì che nel nostro paese questo non sia possibile solo in un film.