Cuore di seta – La mia storia italiana made in China è un libro di Shi Yang Shi in cui vengono contrapposte le due culture, l’italiana e la cinese, alla base della sua originale personalità.

(prima pubblicazione Pride gennaio 2018)

 

Nato in Cina nel 1979, Shi Yang Shi è ormai abbastanza conosciuto, sia per la pièce teatrale che ha portato in giro per l’Italia un paio di anni fa sia per avere lavorato in numerosi film o nelle Iene in TV. In Cuore di seta (Mondadori) ha raccontato la sua vita: il viaggio ardimentoso in Italia a 11 anni, le peripezie vissute accanto alla madre e, soprattutto, la sua omosessualità (raccontata con dovizie di particolari), che ha dovuto fare i conti con la famiglia e la cultura cinese.

In cosa ritieni che la tua storia sia diversa da quella di tanti altri ragazzi immigrati o gay?
Non credo sia così speciale, però è stato un incrocio di crisi di identità – italiana contro cinese – e di orientamento, perché sono gay. Forse la specialità è che sono il primo attore cinese che si sta affermando in Italia, per me è un onore raccontare attraverso me la storia di tanti altri.

Perché questo titolo?
È quello che sembrava più dolce, perché il libro è rivolto anche agli adolescenti. In ogni caso, “cuore” è il conflitto con i genitori e la lotta per l’emancipazione; “seta” vuole ricordare l’antica civiltà da cui vengo e quindi la responsabilità della trasmissione di una cultura, nonostante le ferite che si vivono durante la vita.

Racconta della banana…
Sì, quando vado in Cina vengo chiamato “banana”, giallo fuori bianco dentro. È un modo di dire per tutti i cinesi cresciuti in Occidente.

Che rapporto c’è fra ArleChino, la tua pièce teatrale, e Cuore di seta?
In fondo è sempre lo stesso spettacolo, che racconta la mia italianità e la mia cinesità. Comunque in ArleChino non parlo dell’omosessualità, mentre lascio spazio alla storia dei miei antenati e alla politica. Questo nel romanzo non c’è, in compenso si parla molto dell’intimità con miei genitori, a partire da mia madre.

Hai fatto molti lavori, anche di basso profilo. Non credi che anch’essi possano arricchire una persona?
Assolutamente. Però è stato scioccante pulire in Calabria la merda di un ristorante (per un blocco delle fognature). Poi, anche se dicevo di avere 16 anni, ne avevo 12, di fatto è stata la fine dell’infanzia.

Racconti il tuo coming out?
È avvenuto in più fasi. Con mia madre è stato facile, lo ha indovinato, ma mi ha chiesto di chi fosse la colpa. Con mio padre è stato diverso: quando gliel’ho detto ho avuto paura che mi ammazzasse, per questo “male” ha incolpato il capitalismo. Insomma, all’inizio è stato indolore, ma poi sono arrivate conseguenze tragiche e sono scappato da casa.

Secondo te agli italiani gay piacciono i ragazzi cinesi, o asiatici più in generale?
Forse non molto. Eh sì, nel sesso c’è molto sessismo, anche io non ne sono fuori. Quindi ci sono i neri, che ce l’hanno grosso, e i cinesini, che sono piccoli e glabri. Secondo me, c’entra una questione di sudditanza verso la cultura americana.

I ragazzi cinesi gay che vivono in Italia riescono a esprimere la loro sessualità?
Non lo so, non ho amici cinesi gay. In ogni caso, credo sia meglio qua che in Cina.

In Italia hai avuto molti rapporti. In Cina hai avuto degli incontri erotici?
Più di 15 anni fa, quando ci sono stato per la prima volta per 6 mesi, ho avuto diverse esperienze, tra battuage e qualche bar (non conoscevo le saune). Ne ricordo una a Jinán, la mia città natale, in un posto molto suggestivo. Ricordo anche un ragazzo conosciuto online, di una mascolinità dolce e disponibile, che in Italia non avevo conosciuto. Rientra in una sorta di “romanticismo cinese”.

Cosa c’è di cinesità in te? E di italianità?
Be’, di positivo di cinese c’è la perseveranza, la dedizione, la resistenza, l’orgoglio di sentirsi parte di una cultura millenaria, di italiano la creatività, l’amore per l’arte e la capacità di arrangiarsi. Ma ci sono anche cose negative: quelle italiane sono lo sputare nel piatto in cui mangio, il lamentarmi, fare la vittima e arrivare in ritardo, quelle cinesi anteporre il lavoro a ogni altra cosa (famiglia, amici e salute) e fare il capetto un po’ dispotico.

L’attrice Ingrid Thulin una volta disse che quando si è figli di più culture alla fine si sta male dovunque, perché manca sempre qualcosa. Sei d’accordo?
In parte sì, in parte no. Credo che per me sia stato più forte che per lei, vista la differenza tra le due culture. In ogni caso, credo che finché sei figlio subisci ma quando guadagni posizione puoi stare bene ovunque, se hai fatto un buon percorso con te stesso. Ma è difficile, bisogna fare dei sacrifici, anche su sé stessi.

Tu e il tuo compagno, lo stilista Angelo Yezael Cruciani avete pensato di unirvi civilmente?
Lo abbiamo già fatto nel 2014, registrandoci a Milano, certo non era ufficiale, ma per noi è stato importante. In ogni caso, stiamo pensando a farlo seriamente.

Chi sono Leone e Peonia, a cui il libro è dedicato?
Leone è simbolo di coraggio, Peonia è il fiore cinese per antonomasia. Sono i nostri figli, per il momento virtuali, che non riusciamo a creare, anche perché per il momento il lavoro è la cosa principale. Ci stiamo chiedendo come creare una famiglia, con o senza mamme.