Il film 120 battiti al minuto racconta il coraggio e l’orgoglio degli attivisti francesi di Act Up Paris, la “comunità dell’AIDS” che ha affrontato pubblicamente (e a muso duro) i tabù sulla malattia. Abbiamo intervistato il regista Robin Campillo.

(prima pubblicazione Pride novembre 2017)

 

Il film di Robin Campillo, 120 battiti al minuto, ha avuto il merito di sollevare diverse questioni. Come ha spiegato il distributore Teodora in seguito a un tweet molto controverso, il film premiato a Cannes con il Gran Prix della giuria è un film militante. Racconta un capitolo della storia della comunità gay di particolare importanza, il deflagrare dell’epidemia di AIDS e la reazione che una parte della comunità ha saputo mettere in campo. E se altre pellicole hanno storicizzato gli eventi dei primi anni AIDS nel contesto statunitense, 120 battiti fa lo sforzo di guardare al vecchio continente, partendo dall’esperienza di quella che forse è stata la più controversa e provocatoria associazione di lotta all’AIDS europea: Act Up Paris. Seguendo i propri ricordi e lavorando su una sceneggiatura articolata, Campillo intreccia amore, musica dance, attivismo politico e sensualità per parlare di AIDS. Un tema che ancora molti considerano scomodo. Gli abbiamo chiesto cosa ne pensa in proposito.

È ancora complicato fare un film sull’HIV?
Per me, in Francia, non è stato particolarmente difficile. I produttori non hanno fatto problemi ad appoggiare il progetto. Forse c’è un po’ un senso di colpa perché l’argomento AIDS è stato trascurato così a lungo. Ma credo anche che abbia soprattutto pesato il fatto che Act Up Paris, pur essendo un gruppo controverso e a volte criticato, era incredibilmente popolare. Le loro iniziative venivano seguite come un teleromanzo e sollevavano interesse e curiosità in tantissime persone. Molti, almeno in Francia, pensano che si sia trattato dell’ultimo vero movimento politico che c’è stato nel nostro paese da diversi anni. Oggi siamo in una situazione in cui tutti sembrano rassegnati all’impossibilità di incidere sulla politica. Act Up Paris racconta di un gruppo di giovani disperati che invece hanno saputo far cambiare le cose. Questo dà entusiasmo. Credo sia per questo che quando abbiamo proposto alla televisione nazionale francese di fare un film su questo gruppo hanno subito detto di sì, perché erano molto interessati al movimento politico, oltre al tema dell’AIDS o della comunità gay.

La cosa che appare chiara nel film è che l’attivismo politico che animava questo movimento era strettamente interconnesso con gli aspetti privati: la vita sociale nelle discoteche, la sessualità, i rapporti di amicizia. Cosa rendeva possibile unire tutti questi aspetti?
Parlando della Francia e della mia esperienza, il movimento gay era in crescita fino alla comparsa dell’AIDS, ma poi l’epidemia ha ricreato una specie di closet, ha costretto nuovamente le persone a nascondersi. Io stesso quando è arrivato l’AIDS avevo poco più di 20 anni e mi sono talmente spaventato che ho evitato qualsiasi contatto con la vita sociale gay: era come se mi negassi la mia omosessualità. L’AIDS ha fatto sì che mentre prima avevamo il piacere di condividere e stare insieme, improvvisamente ci siamo tutti separati. Io credo che gli anni ‘80 siano stati un momento di solitudine per molte persone gay, almeno per me è così. Solo alla fine degli anni ‘80, quando finalmente ho trovato il coraggio di affrontare la paura di poter essere sieropositivo e sono andato a fare il test che risultò negativo, solo a quel punto mi è salita l’incazzatura per quello che stava succedendo: eravamo bloccati dalla paura e non c’era nessuno che facesse niente per aiutarci ad affrontarla. Fu allora che sentii il fondatore di Act Up Paris, Didier Lestrade, parlare in TV di “comunità dell’AIDS” ed era la prima volta che sentivo la parola “comunità” legata all’AIDS. E la cosa aveva senso: io avevo appena superato le mie paure e mi stavo connettendo con la vita gay, andavo in discoteca. Cominciavo a sentire il senso di una comunità, anche se si trattava di una comunità clandestina, che godeva delle proprie peculiarità nel segreto, come se fossimo tutti Marcel Proust o Jean Genet. Ci piaceva pure questo senso di segretezza, ma nel frattempo i mezzi di informazione non ci dicevano altro che di quella malattia si moriva, e non c’era possibilità di avere altre informazioni utili. Non sapevamo come affrontare il tema dell’AIDS, neanche tra di noi. In quel periodo ho avuto una storia con una persona in AIDS, la storia che Nathan racconta nel film a Sean: quando ho capito che lui si era ammalato, non siamo riusciti nemmeno a parlarne, abbiamo solo lasciato finire il rapporto. Dopo, mi sono reso conto che era come se la nostra storia non fosse niente, come se non fosse mai accaduta. Con l’AIDS, la nostra vita poteva essere cancellata senza che rimanesse traccia di quello che eravamo stati. Questo mi faceva arrabbiare: per questo mi sono connesso con il mondo di Act Up, gli unici che ci davano le informazioni di cui avevamo bisogno. Con loro mi sono sentito più forte, non solo politicamente ma persino fisicamente. Trovavo persino sexy i ragazzi che indossavano le magliette di Act Up: questo per dire che era tutto connesso, la musica che ascoltavamo, i ragazzi con cui facevamo sesso, l’attività politica erano tutte parti di una stessa cosa.

Nel film c’è una delle pochissime scene di sesso della storia del cinema in cui uno dei due prende un preservativo, se lo mette, prende il gel e lo usa, il tutto mostrato nei dettagli ma con sensualità. Qual è stato il ruolo del preservativo nell’evoluzione della sessualità gay?
Oggi sappiamo che non bisogna avere paura delle persone con HIV. Ma all’inizio degli anni ‘80 non sapevamo niente di come si trasmettesse e la gente moriva, era umano avere paura. Io ne avevo tanta. Persino quando si cominciò a dire che bisognava usare il preservativo, io non ero sicuro che mi proteggesse, mi dicevo che non avevamo abbastanza informazioni per esserne certi. Tieni presente che credo che nessun uomo gay avesse mai usato un preservativo prima di allora. Mi ricordo bene il primo ragazzo con cui ho fatto sesso in quel periodo e mi ricordo che lui fu carino a spiegarmi come usarli, come usare il gel eccetera. Poi, anni dopo, una volta che feci il test e scoprii di essere sieronegativo, mettendo a tacere le mie paure, allora il preservativo è diventato qualcosa di magico, come un dono che mi permetteva di fare sesso senza il terrore che mi portavo dietro. Il preservativo mi aveva salvato; ma non lo vedevo come qualcosa di eccitante, come dicevano alcune organizzazioni francesi che volevano “erotizzarlo”. Avrei preferito farlo senza, ma almeno mi permetteva di lasciarmi andare. Più tardi ancora, quando con il mio compagno sieronegativo abbiamo finalmente smesso di usarlo, ho capito quanto era bello farlo senza.

Nel film è molto presente anche il tema della morte, affrontata in un modo molto naturale, anche grazie al senso di comunità. Era un senso diverso della morte quello che vivevate allora rispetto a come si vive adesso?
Non so come si vive adesso perché le persone non muoiono, almeno non di AIDS. Ma era diverso, certo. Allora era tutto diverso: anche lo stare in coppia non era come è adesso: non si stava insieme per anni ma per settimane. Quando qualcuno perdeva il compagno, era qualcuno con cui aveva condiviso al massimo alcuni mesi. Come avviene nel film, la persona che stava morendo aveva bisogno del suo compagno, ma il compagno aveva bisogno del gruppo per affrontare la cosa. E questo faceva sì che anche la perdita privata si trasformasse in un fatto politico. Ricordo un amico che una volta venne a una festa organizzata per parlare di AIDS mentre il suo compagno stava morendo perché aveva bisogno di sentirsi parte del gruppo, ma pianse tutta la notte perché si diceva che forse se stava lì voleva dire che non amava il suo compagno. Non sapevamo come affrontare queste cose, vivevamo queste perdite in una sorta di anestesia: eravamo giovani e morivamo giovani, ma fortunatamente eravamo anche giovani abbastanza per affrontare quel dramma, non credo che sarei in grado di gestirlo ora. Ad alcuni sembra strano che un ragazzo la sera stessa in cui è morto il suo ragazzo cerchi di andare a letto con qualcun altro, ma in quel momento era un modo normale e spontaneo per affermare la vita. Era umano.

Anche l’impegno nell’attivismo contro l’AIDS oggi è così diverso da allora: non ci si indigna più. Non riusciamo più a mobilizzarci. Cosa è cambiato?
Io ho dovuto allontanarmi dall’impegno di attivista per lungo tempo, anche perché mentre facevo l’attivista non riuscivo a seguire la mia passione per il cinema. Mi ritrovo in questo periodo in una fase completamente diversa dell’epidemia: le persone con HIV conducono una vita molto migliore, il fatto che chi è in terapia non possa più trasmettere l’infezione ai partner sessuali è una cosa miracolosa, grandiosa. E c’è la PrEP che è molto efficace, anche se alcune persone pensano sia da condannare. Abbiamo i mezzi per fermare l’infezione ma manca la comunicazione: dovremmo incoraggiare le persone a fare il test, più spesso si fa e meglio è. Ma i governi non hanno la volontà politica di mobilitarsi. E poi ci sono le case farmaceutiche che dovrebbero abbassare i prezzi dei farmaci. Per esempio, Gilead ha cercato di rinnovare i diritti sul farmaco per la PrEP che ora potrebbe essere generico. Questo è folle! E il governo difende le imprese farmaceutiche! Non sono le persone con l’infezione che costano troppo, ma i farmaci! Le case farmaceutiche dovrebbero essere nel mirino dei nostri governi e invece questo non accade. Tutto questo viene agevolato dal fatto che le persone non prestano più attenzione a questo argomento, per questo c’è ancora così tanto bisogno dell’attivismo per l’HIV, l’unico che mantiene l’attenzione alta.