Per una persona con disabilità, tra il sesso e l’omosessualità ci sono numerose barriere: architettoniche, assistenziali e culturali. La storia di Riccardo.

(prima pubblicazione Pride luglio/agosto 2017)

 

Lo incrocio su un sito di incontri per orsi e cacciatori, dove si fa notare per l’eloquio brillante e un’ironia piuttosto amara. Riccardo è un chaser di orsi, ha 27 anni e gli piacciono gli uomini maturi. A causa di una paralisi cerebrale che lo ha colpito alla nascita si muove su una sedia a rotelle. Vive a Grosseto in un grande appartamento con una coppia di uomini gay – da poco uniti civilmente – che gli fanno da assistenti stipendiati dall’amministrazione comunale, insieme a cinque cani. Il suo sostentamento è garantito a fatica dalla pensione di invalidità, dall’assegno di accompagnamento e da un lavoro occasionale come articolista per il sito Disabiliabili.net, con “un limite sulle righe che posso scrivere che si riflette sui compensi: decisamente non mi permette di farne una prima occupazione”.

Gli chiedo quali sono gli ostacoli più insormontabili che si trova davanti nella vita di tutti i giorni. “Di sicuro le barriere architettoniche: la mia città non è invivibile, però c’è troppo da fare ancora, sia per gli uffici che per bar e supermercati, per non parlare delle buche nelle strade”. In quei casi, la presenza di un accompagnatore diventa indispensabile. “Ci sarebbe il Triride, un attrezzo che consente di trasformare la carrozzina in una specie di motorino; per la mia patologia però non va bene: è finita che mi son dovuto far aiutare di più che non con la solita carrozzina”.

Al secondo posto tra i muri da valicare, Riccardo mette “le barriere mentali. Grosseto non è particolarmente omofoba, forse più nelle istituzioni che tra le persone comuni. Per quanto riguarda i disabili siamo però a livelli medievali: si dà per scontato che siamo tutti scemi. Io sono arrivato a dovermi imporre semplicemente per intervenire in una discussione. La frase più grottesca che mi sento dire è ‘di te non si vede che sei gay’. Questo dimostra che prima ancora che sull’omosessualità si devono fare grandi passi avanti sulla sessualità. Da quando ho fatto coming out, otto anni fa, so solo che è un po’ difficile trovare altri gay disabili, però quando faccio presente di essere un disabile gay commenti negativi non ne ricevo. Piuttosto, apprezzano il coraggio per essermene andato via di casa da giovane”.

Riccardo è originario di una cittadina pugliese ma da anni non ha più nessun rapporto con la famiglia. Non tanto per problemi legati al coming out, quanto per l’odiosa tendenza dei genitori a utilizzare l’handicap del figlio come risorsa economica. “La mia famiglia rimane un tasto dolente per il momento difficile che l’Italia sta vivendo dal punto di vista dell’occupazione. Ho saputo rinunciare al suo sostegno morale; quello economico è venuto di conseguenza e così faccio a meno della loro ingerenza”.

Parlando di relazioni arrivano le note dolenti. “I gay italiani non sono per nulla preparati ad affrontare la disabilità. Difficile non è tanto arrivare al rapporto sessuale, per esempio, ma alla sua qualità. A parole ti rivolterebbero come un calzino, poi arrivi all’atto ma il livello di soddisfazione è molto scarso. Il guaio è che mi vengono fatte troppe poche domande su questioni pratiche e logistiche, su come e dove farlo. A volte si dà per scontato che io prenda un po’ quello che trovo, anche se questo non mi viene mai detto in faccia. Spesso limita il fatto che io non viva solo e non possa invitare a casa nessuno, perché i vicini di casa non lo consentono per ragioni di sicurezza. Capisco che possa indispettire dover andare in albergo, anch’io preferirei avere uno spazio tutto mio che comunque desse una certa spontaneità agli incontri, senza gli inconvenienti del caso”. Un altro problema serio è la totale disattenzione verso il sesso sicuro. “Nessuno di questi uomini, tutti sopra i trent’anni, porta con sé i preservativi, ma neanche dicono di comprarli dopo. Il risultato è finire col farsi le coccole come i bambini, o poco più. L’ultima volta ho incontrato una persona che ha evitato le domande sui genitali, ma poi i condom che aveva erano troppo piccoli! Io credo ci sia imbarazzo ad affrontare questi argomenti perché sono disabile, sempre dalle parti di ‘prendi quel che viene e stai zitto’, tanto che spesso gli uomini che incontro non arrivano volutamente nemmeno all’orgasmo”.

Se sono insoddisfacenti i rapporti occasionali, con le relazioni di lungo periodo va un po’ meglio? “Una relazione come la desidererei non l’ho mai avuta. Tranne un paio di casi, la frequentazione finisce a causa della mia disabilità. Spesso il motivo per cui si rompe non fa in tempo a venir fuori e ci sono i problemi di tutte le relazioni. Di recente mi è capitato di contattare una persona lontana facendo un apprezzamento estetico, lui ha colto la palla al balzo per farmi un filo esagerato e così ci siamo scambiati i numeri di telefono. Già mi sembrava corresse troppo: se vivi in un mondo di principesse e poi vieni a trovarmi, hai la disabilità davanti agli occhi e ti passano tutte le fantasie. Invece non mi ha ascoltato: abbiamo cambiato lo status di Facebook, ‘auguri auguri ma quanto siete belli!’, baci per strada, si faceva presentare alla gente come mio compagno, poi torna a casa sua e nel giro di una settimana mi dà il benservito su Skype. Motivo? ‘Mi sono reso conto che quello che posso darti è amicizia’. Durata, un mesetto totale. Questo il caso più eclatante, per il resto ai due mesi non sono mai arrivato, soprattutto per ingerenze famigliari ma anche per colpa di chi vuole una persona più risolta fisicamente. Parlando da gay dichiarato ai muri, dovrei trovare qualcuno che accetti la mia disabilità e che sia anche visibile come gay, che sembra semplice ma in provincia non lo è! Non tollero chi si comporta come un ladro, non lo giudico ma lo compatisco; l’importante è non chiedere a me di fare altrettanto. In generale mi sembra che per le lesbiche sia più facile avere a che fare con la disabilità, mentre per i maschietti è molto più complicata da gestire in coppia”.

Gli chiedo ironicamente se si fidanzerebbe con un devotee, ossia con chi dichiara l’attrazione sessuale per uomini con qualche handicap fisico. “Non ho una cultura del fenomeno, per quel che ne so mi sentirei profondamente usato. Cioè, tu non vieni a letto con me perché ho i feromoni che ti attirano ma solo perché sono disabile? Direi proprio di no!”.

Nemmeno le associazioni arcobaleno sanno gestire al meglio la disabilità. “Ho avuto esperienza solo con Arcigay a Grosseto e non è stata positiva. Non ci sono state situazioni che mi abbiano fatto sentire brutto, ma emarginato nelle dinamiche associative in quanto disabile, quello sì. Nelle riunioni con argomenti seri non riescivo a infilarmi nel discorso, mentre durante le feste, non potendo andare nel mezzo della sala e dimenarmi, rimanevo del tutto fuori gioco”.

Riccardo attinge alle proprie esperienze per confermare il luogo comune che vuole i gay fissati con la forma fisica e sconcertati dalle imperfezioni delle disabilità. “Questo sembra valga meno per i gay degli altri paesi, ma direi che l’ossessione è per il sesso in generale. E molto gira intorno al fallo: forma, dimensioni, funzioni. Adoro il sesso, però se c’è di mezzo la disabilità non puoi fare finta che non esista, puoi circoscriverla ma non puoi ignorarla del tutto”.

L’atteggiamento dell’Italia su questi temi è in generale inadeguato: “Alla fine ci vogliono tutti astratti, esseri angelicati senza nessuni stimolo erotico e sessuale. L’arretratezza sulla figura dell’assistenza sessuale ai disabili ne è una conferma molto triste”.

Per concludere, Riccardo vuole dare un segnale forte contro i proclami dei gay bigotti sulle condotte “sobrie”. Mi mostra gli accessori che sfoggerà l’indomani, durante il corteo del pride di Grosseto: rossetto e rimmel da abbinare alle abituali spillette orsofile. “M’è venuto questo spirito rivoluzionario: per un giorno mi concerò esattamente nella maniera in cui non vogliono che vada in giro”.

 

L’OFFERTA ASSOCIATIVA

Dopo la dissoluzione di un analogo gruppo di Roma,il Cassero di Bologna con Jump LGBT – Oltre tutte le barriere è rimasta l’unica associazione italiana di disabili omosessuali. Il suo portavoce Pierluigi Lenzi ci spiega che l’intento è quello di lottare “a favore della vita indipendente della persona con disabilità e perché possa esprimere in maniera altrettanto libera la propria sessualità. Troppo spesso l’argomento viene affrontato in maniera superficiale, mentre richiederebbe molta preparazione. Spesso la disabilità fa passare in secondo piano l’omosessualità e proprio questo accantonamento si rivela un’arma a doppio taglio: mettendola da parte, la sessualità della persona disabile finisce per essere occultata”.
Un miglioramento della vita delle persone LGBT con handicap è arrivato dalla rete, che offre “nuove opportunità per conoscere e incontrare, riducendo sia le difficoltà ‘fisiche’ di accedere ai locali, sia l’imbarazzo del primo impatto con una fisicità diversa. È vero anche che il web ha le sue barriere: come può trovarsi una persona cieca a usare app tutte incentrate sulle foto degli utenti?”.
Al netto delle diverse patologie delle quali una persona disabile può soffrire, e anche delle indoli rispettive, per Lenzi la differenza tra l’avere o meno una piena e soddisfacente vita sessuale e amorosa lo fa, “come per qualsiasi altra persona anche senza disabilità, il livello di accettazione personale raggiunto dal singolo. Se hai imparato a convivere con i tuoi limiti e ad accettarli, allora sarai pronto a vivere pienamente”. Il tema spinoso dell’assistenza sessuale ai disabili gravi anche lgbt, invece, è ancora molto al di là dall’essere affrontato: “C’è una proposta di legge che è stata presentata da Max Ulivieri e che da ben tre anni giace in Senato. Per protestare contro questo silenzio istituzionale, Max comincerà a settembre una disobbedienza civile che Jump ha formalmente appoggiato”.
Lenzi e i componenti del gruppo non si esprimono sulla situazione italiana in generale ma possono parlare di quella bolognese, il cui circolo Arcigay ha sede “in un luogo non pienamente accessibile e questo di fatto ci impedisce di partecipare alla vita della comunità”.