Il dibattito italiano su unioni civili, omogenitorialità e stepchild adoption è stato impervio e non si è del tutto concluso. La sociologa Daniela Danna pone una domanda non retorica: in tutto questo dove sono le donne, le lesbiche, le madri?

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  1. Introduzione

Questo articolo presenta il dibattito politico italiano sulle unioni civili e sul riconoscimento legale di famiglie create da gay e lesbiche, con un focus sulla XVII Legislatura iniziata nel 2013, che ha introdotto le unioni civili per le coppie dello stesso sesso.

Il 25 febbraio 2016, quasi tre decenni dopo la sua proposta da parte di Arcigay, è stata approvata in Italia una legge che ha introdotto le unioni civili per le coppie dello stesso sesso. Dal momento che essa risulta lontana dall’istituzione di un’eguaglianza matrimoniale, il movimento LGBT ha protestato, avendo iniziato già nel 2007 a richiedere il matrimonio.

La mobilitazione è avvenuta a seguito dell’inganno perpetrato dal governo Prodi, che aveva proposto il riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso in campagna elettorale, e sulla scia del successo internazionale delle campagne LGBT per il matrimonio (Ceccarini, 2008; Saez 2010; Chaime e Mirkin, 2011; Holzhacker, 2012; Saez, 2013; Schmitt et al. 2013; Fairbairn et al, 2014). Dato che le istituzioni dell’Unione Europea avevano ripetutamente e chiaramente dato il via libera alla parità matrimoniale (e a norme penali contro l’”omofobia”), possiamo affermare che il movimento LGBT abbia seguito la struttura delle opportunità politiche (Trappolin, 2004; Tarrow, 2011; Knill e Preidel, 2015; Parisi, 2016). Il Fuori!, la prima storica associazione gay e lesbica a livello nazionale, aveva inoltre rivendicato il matrimonio per persone dello stesso sesso già nel 1980, tuttavia la proposta inziale di Arcigay era per il riconoscimento delle unioni di fatto.

La nuova istituzione giuridica dell’unione civile mira ai “gruppi sociali” menzionati all’art.3 della Costituzione italiana e non alle “famiglie”, costituzionalmente basate sull’art. 29 e sul matrimonio, implicitamente definito nel codice civile come unione tra un uomo e una donna attraverso l’impiego dei termini “marito” e “moglie”. Infine, il governo (fu richiesto un voto di fiducia) osservò la sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale, che esortava il legislatore a riconoscere legalmente le coppie dello stesso sesso attraverso un nuovo istituto differente dal matrimonio, perché altrimenti sarebbe stato dichiarato incostituzionale.

All’interno della legge sulle unioni civili, una vistosa lacuna riguarda il riconoscimento dell’unità familiare per le coppie lesbiche e gay e i loro figli. La bozza originale l’aveva introdotta sotto il nome e la sostanza di “stepchild adoption”. Fu una promessa elettorale di Renzi ma è stata poi accantonata dal suo governo, avendo incontrato una feroce opposizione interna ed esterna. Tale soppressione è andata a discapito delle famiglie create da una coppia lesbica, che in Italia rappresentano la stragrande maggioranza delle persone LGBT che vivono con bambini, e otto soci di Famiglie Arcobaleno su dieci sono socie.

Quali sono stati gli argomenti delle diverse parti nel dibattito sulle “famiglie arcobaleno”? Com’è stata affrontata, o taciuta, la differenza sessuale? Ciò rappresenta il fil rouge dell’articolo, per contribuire alla comprensione della politica sulle tematiche LGBT attraverso le lenti della differenza sessuale. Le fonti su cui si basa l’articolo includono la rassegna stampa dei quotidiani La Stampa e Corriere della Sera e i comunicati stampa di Arcigay, Arcilesbica e Famiglie arcobaleno (2013-2016).

 

  1. Il dibattito sulle coppie dello stesso sesso e l’omogenitorialità

L’intero dibattito sulle unioni civili, fino all’approvazione della legge che le ha introdotte, trae linfa dall’attivismo transnazionale. Fu l’International Gay Association (IGA, poi ILGA, International Gay and Lesbian Association) a fare strenuamente pressione sulla Comunità/Unione Europea per il riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso e delle loro famiglie (Kollman 2007; Paternotte et al., 2008; Holzhacker, 2012). La strategia legale prescelta è stata quella dell’antidiscriminazione. Il soggetto che ha portato il dibattito in Italia è stato Arcigay.

Arcigay è stato fondato nel 1981, l’anno precedente lo scioglimento del Fuori!, dopo quasi un decennio di attivismo gay e lesbico (Cristallo, 1996). All’indomani della scomparsa del Fuori!, Arcigay è diventata l’associazione nazionale di riferimento per le persone LGBT (Rossi Barilli, 1999). Nel 1987 Franco Grillini ha avanzato la prima richiesta di “diritti civili” per le persone LGBT, le cui coppie sarebbero dovute essere riconosciute nella forma dell’“unione civile”.

Franco Grillini e Giuseppe Caputo hanno presentato una proposta di legge, proponendo la regolamentazione egualitaria sia delle coabitazioni omosessuali che di quelle eterosessuali. Ciò ha segnato un punto di svolta dalle rivoluzioni culturali degli anni Sessanta e Settanta, quando la presenza sulla scena pubblica di gay, lesbiche, transessuali (e molto meno di bisessuali) introdusse nuove possibilità nel panorama sessuale, che potevano essere vissute senza la vergogna che tormentava le persone LGBT e persino figure intellettuali come Pier Paolo Pasolini (Marcasciano, 2007; Poidimani e Pedote, 2007; Azione gay e lesbica Firenze, 2011; Danna, 2014b).

La visibilità LGBT si è sviluppata attraverso un’aperta e fiera rivendicazione di un’identità omosessuale “moderna” (Barbagli e Colombo, 2007). L’identità omosessuale, chiamata dai critici “il gay globale” (Altman, 1996; Nardi, 1998), è attualmente basata sul concetto di orientamento sessuale e non di pratiche sessuali “passive” per gli uomini (Pini, 2011), mentre per le donne il dualismo “attivo” e “passivo” ha poco senso. Per di più in Italia non è mai stata molto impiegata la comune distinzione tra “lesbica mascolina” e “femme” (Kennedy e Davis, 1993; Passerini e Milletti, 2007). Il movimento lesbico ha tratto forza dalla seconda ondata femminista, acquisendo infine una particolare visibilità nella forma dei collettivi lesbici quando quelli femministi tramontarono (Danna, 2012).

Le unioni civili sono state richieste non solo in occasione di manifestazioni e marce pride, ma anche attraverso una campagna di raccolta firme per presentare una legge di iniziativa popolare, accolta con favore da parte dell’opinione pubblica. Nel 1993 il movimento LGBT chiese alle amministrazioni cittadine di aprire dei Registri per le unioni civili, anche se non avevano alcuna validità giuridica. Circa 300 città introdussero tali Registri: Empoli, Firenze, Ferrara furono tra le prime, mentre la maggior parte delle altre li aprirono dopo il 2000.

La proposta d’istituzione delle unioni civili non aveva alcun articolo riguardante la prole. In quegli anni le famiglie formate da coppie dello stesso sesso erano quasi esclusivamente di donne, con (rari) uomini che avevano figli da una precedente partner donna e se ne occupavano. I soci di Arcigay erano e sono prevalentemente uomini, generalmente ancor meno interessati delle lesbiche alla procreazione (Barbagli e Colombo 2007), mentre risulta lo siano circa il 90% degli eterosessuali. Le adozioni non venivano ritenute una priorità.

Nel 1992, il giorno del pride sono stati inscenati dei matrimoni gay con la partecipazione di una coppia lesbica in piazza della Scala a Milano, con l’obiettivo di testimoniare la necessità dell’introduzione delle unioni civili. Ebbero una grande risonanza sui media. Le lesbiche all’interno di Arcigay si dichiararono invece perplesse per il sostegno dato proprio a quell’istituzione che per millenni è stata oppressiva nei confronti delle donne e che le femministe avevano attaccato e rifiutato. Azione Omosessuale, un’organizzazione ombrello dei gruppi radicali, molti dei quali erano appartenuti ad Arcigay, sostenne il matrimonio in nome dell’antidiscriminazione e si rifiutò di seguire Arcigay nell’omissione della questione dell’adozione.

Nel 1993 l’associazione nazionale cambiò il suo nome in Arcigay Arcilesbica, ma solo tre anni più tardi le attiviste lesbiche l’abbandonarono per fondare un’Arcilesbica indipendente (Dragone et al., 2008). Lo stesso anno, le donne di Arcigay produssero un documento in cui esprimevano dubbi circa le politiche di riconoscimento delle coppie: per evitare di discriminare le persone che non si trovano in una relazione, risulta piuttosto necessario perseguire l’obiettivo dei diritti per i singoli cittadini (Danna, 1997 e 2001).

Il dibattito sull’omogenitorialità iniziò quando il parlamento europeo approvò la “Risoluzione sulla Parità di Diritti di Omosessuali e Lesbiche nella Comunità Europea”, presentata a seguito del Rapporto dell’europarlamentare verde tedesca Claudia Roth (Risoluzione n. A3-0028/94, 8 Febbraio 1994). Nonostante la risoluzione fosse solamente una raccomandazione non vincolante, a causa dell’inesistente potere legislativo del Parlamento Europeo, essa costituì un punto di riferimento per il movimento LGBT italiano, divenendo nota come la “Risoluzione di Strasburgo” per antonomasia. Ciò diede il via alla reciproca legittimazione tra il progetto dell’Unione Europea e le minoranze sessuali.[1]

La Risoluzione affermò l’esistenza di una “specifica responsabilità della Comunità Europea nell’assicurare parità di trattamento per tutti i cittadini, indipendentemente dal loro orientamento sessuale”. Essa voleva proibire la criminalizzazione dell’omosessualità e la discriminazione basata sull’orientamento sessuale; imporre lo stesso limite di età per il consenso nelle relazioni omosessuali ed eterosessuali (una questione in Italia non rilevante); dichiarava di voler garantire protezione dalla violenza e combattere le diverse forme di discriminazione sociale, garantendo l’accesso a fondi sociali e culturali per le associazioni LGBT e negando alle autorità la raccolta di dati sugli omosessuali. Infine: “Il Parlamento Europeo crede che la Raccomandazione debba, perlomeno, cercare di porre fine […] all’esclusione di coppie lesbiche e omosessuali dal matrimonio o da un equivalente quadro normativo, e debbano garantire pieni diritti e benefici dal matrimonio, permettendo la registrazione delle unioni; nessuna restrizione deve essere posta ai diritti di lesbiche e omosessuali di essere genitori e di adottare o prendere in affido un bambino.”

I giornalisti e i politici italiani, tra tutte le questioni sul tavolo fecero emergere nel dibattito le proposte più sensazionali: il matrimonio e in particolare il “diritto all’adozione”. Seguì un completo oscuramento delle famiglie fondate su coppie lesbiche mentre ferveva la discussione sull’adozione da parte di uomini gay, condotta su toni inorriditi e sensazionalistici.

I commentatori si mostrarono spesso indignati dalla prospettiva di “dare i bambini ai gay”, una chiara e infamante allusione alla pedofilia. L’accusa di pedofilia apertamente diffusa dall’estrema destra ha avvelenato a lungo il dibattito sui diritti LGBT. La chiesa cattolica, grande oppositrice del riconoscimento legale dei diritti di gay e lesbiche, contribuì a infiammare il dibattito.

L’accusa diffamatoria di pedofilia, indicata come la ragione per cui gay e lesbiche aspirassero a diventare genitori, fu divulgata nell’Enciclopedia del Cristianesimo edita dal Pontificio Consiglio per la Famiglia. Alla voce “Bambino” si afferma: “Un bambino che diventi il figlio adottato di una coppia omosessuale e la figlia adottata da una coppia lesbica diventa una facile vittima dei loro bisogni sessuali, indirizzati verso un partner dello stesso sesso” (Pontificio Consiglio per la Famiglia, 2003). AGEDO, l’associazione formata dai genitori di persone LGBT, citò in giudizio l’autore della voce dell’Enciclopedia, ma ci fu un non luogo a procedere.

La questione della famiglia nelle vite concrete di gay e lesbiche italiane alla metà degli anni Novanta aveva a che fare principalmente con i problemi relativi all’affidamento in caso di divorzio, qualcosa per cui gli uomini non combattono realmente (Barbagli e Saraceno 2002). Sebbene non sia mai stato provato in tribunale che una donna lesbica debba essere di per sé una madre inadeguata (contrariamente a quanto affermano Winkler e Strazio 2011, 198), le madri lesbiche temevano di non ottenere l’affidamento dei propri figli, perché gli ex mariti le minacciavano di questo, solitamente per ottenere maggiori vantaggi dal divorzio.

Gay e lesbiche sono stati, e sono tutt’ora, considerati non qualificati per l’adozione. La maternità surrogata non era un’opzione, quanto piuttosto un pensiero stravagante, che divenne un istituto giuridico solo nel 1993 in California (Danna 2015). Tuttavia l’inseminazione artificiale e l’auto-inseminazione incominciarono a incontrare il favore delle lesbiche (Saffron 1995).

(continua)

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[1] Ad esempio, il comunicato stampa in cui si richiede al nuovo Presidente del Consiglio Renzi di non lasciarsi influenzare da “posizioni arretrate, pericolose, anti europeiste” (“Nuovo governo: associazioni LGBT preoccupate si esprimono,” 20.2.2014, firmato da Agedo, ArciGay, ArciLesbica, Certi Diritti, Equality Italia, Famiglie Arcobaleno, MIT).