La mitica Dietrich torna in scena con la sua ambiguità e il fascino al di là del tempo. A interpretarla è Quince, actor queen che canta le sue più celebri canzoni, ne racconta passioni e debolezze e ci rivela la sua vera identità in questa intervista.

(prima pubblicazione Pride maggio 2010) – ph. Pierre et Gilles

 

Di lei rimane indimenticabile l’apparizione folgorante nell’Angelo azzurro, il film di Joseph von Sternberg che nel 1929 la consacrò nel ruolo della donna fatale. Ci sono però molti aspetti meno noti della vita artistica (e di quella privata) di Marlene Dietrich. Il sodalizio col suo maestro von Sternberg continuò con altre pellicole di successo come Marocco e Shangai Express e terminò nel ’35 con Capriccio spagnolo. Nel frattempo l’attrice, dissociandosi dal regime instaurato da Hitler, aveva lasciato Berlino e si era trasferita negli Stati Uniti dove dal ’39 fu naturalizzata americana. La sua carriera continuò sotto la direzione di registi come Lubitsch (Angelo), René Clair (L’ammaliatrice), Billy Wilder (Scandalo internazionale), Hitchcock (Paura in palcoscenico), Orson Welles (L’infernale Quinlan), sino a Vincitori e vinti di Stanley Kramer, ispirato al processo di Norimberga che portò alla sbarra gli ufficiali nazisti.

Era il 1961 e il cinema cominciava a dimenticarla. Marlene, indomita e smagliante sessantenne per nulla intenzionata a seguire le orme di Greta Garbo, si riciclò come cantante (lo aveva già fatto in alcuni dei suoi film) e per sedici anni girò il mondo (approdando anche alla Bussola di Viareggio) con una serie di recital di grande successo, sino a quando le sue mitiche gambe la sostennero. Poi, a causa dei dolori che la ridussero in carrozzella e degli eccessi alcolici, decise il ritiro nel totale silenzio, rintanandosi nella sua casa di Parigi, dove viveva dal 1968.

Nel ’92 il mito Dietrich si spegneva. A rispolverarlo ci ha pensato Quince, al secolo Riccardo Castagnari, attore dalla formazione tradizionale (studi all’Accademia, poi tanto teatro, spaziando da Goldoni a Shakespeare e Aristofane, diretto da Maurizio Scaparro e Walter Manfrè), ma anche autore (The Man I Love e L’attesa) e regista con un debole per la musica. Ha già vestito i panni della sfacciata Gertrude nell’Amleto, ma per diventare Marlene ha voluto uscire sia dai binari della drag eccessiva e tracimante che da quelli dell’interpretazione en travesti, per non correre il rischio di cadere nella parodia o nella caricatura del camp.

Rifacendosi al teatro elisabettiano dove era prassi che i ruoli femminili fossero interpretati da uomini, ha coniato per sé il termine di “actor queen”, puntando su un’interpretazione in cui il pubblico potesse credere senza porsi domande sul genere sessuale. Eccolo in Marlene D. The Legend (che al termine della lunga tournée sarà al teatro Piccinni di Bari dal 14 al 16 maggio, in attesa delle repliche nella prossima stagione) trasformato nella divina, accompagnato al pianoforte da Burt Bacharach (il bravo concertista Andrea Calvani) che snocciola il mitico repertorio composto da 18 brani, intervallati da aneddoti, confessioni private e il dietro le quinte sulla maniacale preparazione dei suoi concerti.

Incontriamo Riccardo al teatro Franco Parenti di Milano: in camerino indossa ancora il sontuoso abito da sera d’oro e firma autografi a maturi ammiratori. Ad attenderlo fuori per andare a cena c’è un aitante giovanotto.

Come è nata l’idea di questo spettacolo?

Nel 2001 ho pensato a come celebrare al meglio il centenario della nascita di Marlene, ma era tanto tempo che sentivo il desiderio di interpretarla sulla scena. Ero un ragazzino quando alla tv vidi La taverna dei sette peccati e all’istante mi innamorai di lei, bella, elegantissima e piena d’ironia, charme e ambiguità, anche se allora non me ne rendevo conto. A 13 anni avevo registrato tutti i suoi film e andavo a scovare i suoi dischi: scherzando, dico che l’ho sempre avuta per casa come una zia. Trascorsi parecchi anni, diventato attore e scrittore, proposi a una mia amica attrice, non più giovanissima, di portarla in scena. A lei il progetto piaceva ma quando si rese conto che la parte musicale era preponderante, gettò la spugna. Poi, osservando le sue ultime foto del ’75 con quei costumi di scena esagerati, notai che in alcune sembrava proprio un travestito. Cominciai a convincermi che l’operazione poteva rivelarsi più interessante se a impersonarla fosse stato un uomo, confrontandosi con lei da un altro punto di vista, grazie alla distanza, alla differenziazione sessuale. Infatti qualsiasi attrice ci abbia provato, il risultato, almeno a teatro, è stato deludente: adesso al cinema la farà Gwyneth Paltrow, ma rimango scettico, meglio allora Uma Thurman. Decisi che quell’uomo potevo essere io, ma non me la sentivo di interpretarla come Riccardo: il confronto era esagerato, allora ho cercato un’intermediazione, ho inventato Quince, cucendogli addosso una storia romanzata in cui si muove e alla quale il pubblico presta fiducia. Anche se come Marlene mi grida “brava”, vorrei che Quince (che inizia con regina ma finisce con principe) fosse chiamato al maschile, essendo tale il personaggio.

Cosa può trasmettere questa figura allo spettatore di oggi?

Una grande eleganza che non abbiamo più. Ci riporta a un glamour e a degli attori che sono scomparsi, quelli dell’autentico star system americano, fatto di facce, personalità e bravura che riempivano lo schermo. Oggi c’è un decadimento del gusto da parte del pubblico che dipende dalla diseducazione al bello. Marlene può aver avuto tutti i difetti possibili dal punto di vista umano, era una persona difficile, ma se rivediamo uno dei suoi film, troviamo prove di un’attrice straordinaria e di innegabile carisma, che è quello che manca agli attori di oggi. Questo spettacolo cerca di essere rigoroso: ci sono dentro tante lingue straniere e con le trasferte a Città del Messico e in Francia ha assunto infatti un’impronta internazionale.

Per i testi ti sei servito di documenti biografici?

Sì, tutto quello che si dice è documentato e rigorosamente vero, dalla richiesta di avere tre diversi bagni di colori diversi in albergo, al programmare i dettagli del suo funerale. Un capitolo a parte meritano i costumi. La pelliccia bianca che indossava non era una pelliccia bensì un manto di cigno e la leggenda narra che ci volessero 1500 cigni per farne uno, dato che lei voleva la consistenza del pelo ma la leggerezza della piuma. Noi siamo riusciti a fare qualcosa di molto simile all’originale senza spargimento di sangue. Un altro gossip, peraltro rivelato dalla figlia Maria Riva, era che andava in scena con le gambe completamente fasciate, dati i problemi che l’affliggevano.

Una biografia alquanto impietosa…

Sì e molti fan si sono ribellati. Io invece l’ho amata perché fornisce un quadro assai verosimile di Marlene e non credo che la figlia abbia infierito. Era una donna tutta incentrata su di sé, rivolta solo alla costruzione del suo mito. È stata spietata anche con se stessa, vivendo in maniera terribile gli ultimi 15 anni, pur di non farsi vedere da nessuno. Ma la si ama nonostante tutto.

Come appare nello spettacolo, la sua bisessualità e i robusti appetiti sessuali sono dunque acclarati?

Quando viveva a Berlino non aveva problemi: poteva vestirsi da uomo e frequentava solo locali “particolari”. I costumi per L’angelo azzurro, che impose a von Sternberg, li modellò su quelli dei travestiti, dalle mutande ai finti polsini sulla camicia. In America invece i problemi c’erano: le donne, ad esempio, non potevano indossare i pantaloni. Lei, comunque, andava contro corrente e in un film del ’32 arrivò a baciare sulla bocca un’altra donna. La sua forza era quella di imporsi e scardinare stereotipi: sullo schermo era trasgressiva, amante, donna di bordello e traditrice ma aveva una figlia e, a differenza di altre colleghe, non la nascose mai. La sua personalità era davvero fortissima: a lei si è ispirata Madonna – e lo ha dichiarato – che ne ricalca gli stilemi, le trasformazioni e i baci sulla bocca con Britney Spears. A differenza della Garbo, Marlene ha saputo reinventarsi. Insieme avevano girato un film muto e in quell’occasione erano corse voci su un loro coinvolgimento: gli agenti della Garbo fecero poi sparire il film poiché il gossip di Hollywood iniziava a mormorare che Garbo fosse lesbica. La Dietrich invece non ne faceva mistero e sembra proprio che, all’epoca, qualcosa tra loro ci sia stata. In più lei si divertiva a soffiare le amanti alla collega: la scrittrice Mercedes de Acosta stava con la Garbo e Marlene gliela tolse di peso. Un’altra sua conquista fu Edith Piaf. Sul versante maschile, alcuni nomi celebri li cito in scena: da Sinatra a Hemingway, da Gary Cooper a J. F. Kennedy.

Raccontaci dell’avventura parigina e dell’incontro con i fotografi Pierre et Gilles.

Ci siamo andati l’anno scorso e abbiamo portato a casa il premio Marius 2009 come miglior spettacolo musicale della stagione, categoria adattamento francese. Quince ha ottenuto la nomination come miglior attore protagonista, fatto insolito per un attore straniero. Pierre e Gilles sono venuti una sera a teatro: quando sono arrivati in camerino mi è preso un colpo, perché, oltre che icone gay, li considero dei geni. Sono persone squisite ed estremamente semplici, come solo i grandi artisti sanno essere e siamo diventati amici. Dato che partivo dopo due soli giorni, hanno allestito il set il 14 luglio, in Francia festa nazionale: mentre ero a casa loro, fuori crepitavano i fuochi d’artificio. La sessione fotografica è durata quasi 5 ore e il risultato è un’immagine straordinaria, riprodotta su una tela di 1.80 x 70: mi hanno dato il permesso di usarla per lo spettacolo ma, per ragioni di spazio, ho dovuto sacrificare lo sfondo. Lo scatto è stato in mostra sino a poche settimane fa alla Galerie Jérôme de Noirmont. Così se Quince e Riccardo non passeranno alla storia del teatro, a quella della fotografia magari sì…

Ho notato tra il pubblico una folta presenza gay: quali sono le reazioni?

Marlene ha sempre avuto uno stuolo di ammiratori gay e anche quelli di oggi trovano pane per i loro denti: apprezzano la costruzione accurata, il fatto che si canti dal vivo in tre lingue, le battute velenose e le allusioni maliziose. Mi fa però anche piacere incontrare in camerino la signora anziana, impressionata dalla ricostruzione storica che mescola ai suoi ricordi, o il ragazzo diciottenne che non la conosceva affatto e vuole sapere tutto di lei.