Il pensiero transgender in Italia sta ripartendo dalla “presa di parola trans”. Un seminario tenutosi a Bologna presso il M.I.T. ha lanciato il dibattito, personale e politico, interno ed esterno alla comunità T.

 

Sabato 2 dicembre 2017 presso il M.I.T. – Movimento Identità Trans di Bologna si tenne il seminario dal titolo “Transiti, tracce e intrecci di rivoluzioni. Per un archivio dell’attivismo, delle lotte, delle proteste trans gay lesbiche queer nel mondo”.

Nella discussione è intervenuta una importante rappresentanza della militanza transgender italiana e straniera tra cui Susan Stryker, storica, attivista trans, archivista e filmmaker, regista di Screaming Queens – The Riot at the Compton’s Cafeteria, ricostruzione della poco nota storia del primo atto di collettiva resistenza trans avvenuto a San Francisco.

Questo episodio precedette quello più noto dello Stonewall Inn a New York di cui nel 2019 cadrà il cinquantesimo anniversario, e che segnò per convenzione la data di inizio della lotte LGBT moderne.

Non è automatico produrre cultura trans. Uomini e donne transgender sono spesso stati raccontati e rappresentati da altri: medici, giudici, giornalisti. Rintracciare gli indizi di una nostra storia s’intreccia necessariamente con le storie dei femminismi, delle lotte omosessuali e queer nel mondo, in modi tanto diversi quanti sono i corpi con cui abbiamo transitato, e i luoghi in cui queste vite sono state possibili anche al limite dell’impossibile.

A distanza di poco più di un anno da quell’incontro ho posto alcune domande in merito a Porpora Marcasciano.

Perché il M.I.T. ha deciso di organizzare questo seminario?

Perché abbiamo ritenuto necessario e opportuno riprendere il filo del discorso e riportare la parola dove era giusto ci fosse la nostra voce. Non è un’operazione semplice, tantomeno scontata, non si trattava solo di riprendere la parola che normalmente ci è stata sottratta me soprattutto di riempirla di significato. Crediamo sia importante capovolgere quella prospettiva che ci vede sempre come le osservate e diventare anche noi osservatrici, si tratta del nostro punto di vista.

Pensate di realizzare una pubblicazione partendo dal seminario? 

L’obiettivo è pubblicare gli atti per lasciare un segno e dare spunti per dibattito, confronto e approfondimento. A mio avviso esiste poca letteratura trans e quel vuoto spetta a noi colmarlo.

Perché ritieni necessaria, in questa fase, una “presa di parola trans”?

Fin a quando non c’è presa di parola non c’è cambiamento, né emancipazione. Noi persone trans la parola, quindi il discorso, lo abbiamo delegato sempre ad altri, o meglio gli altri, esperti, attivisti, specialisti ecc. se lo sono arrogato senza chiederci nulla. Ma resta il loro punto di vista, è la loro narrazione. Quando i protagonisti diventano produttori di senso e significato, e la parola è un grande mezzo di produzione, cambia di riflesso il mondo intorno.

Qual è lo stato di salute del movimento transgender italiano? Quali sono le prospettive e i tuoi auspici per il movimento T che verrà?

Non credo si possa parlare di movimento perché esso presuppone una quantità di soggetti coinvolti e coinvolgibili che oggi non c’è. È in crisi o in trasformazione il modello stesso di movimento che, alla luce di una realtà cambiata e non solo in meglio, va ripensato. L’attivismo come quello degli anni sessanta e settanta era entrato in crisi già alla fine del vecchio millennio. Oggi la parte attiva della scena trans non va oltre l’offerta di servizi e lo stesso dibattito interno sembra circoscritto a poche persone. Una parte di colpa è riconducibile all’uso sempre maggiore dei social che hanno spostato i piani dalla realtà al virtuale.

Partendo dalle parole di Porpora e dal senso che per me ha avuto la partecipazione al seminario, è chiaro che l’elaborazione culturale sul genere è un cantiere aperto, e che molte ancora sono le questioni sensibili nel dibattito mondiale sui generi e sui loro confini. Temi sui quali le persone transgender sono appunto state spesso oggetto di discussione, ma quasi mai chiamate a pronunciarsi come soggetto che esprime proprie idee, visioni e punti di vista. È tempo, a mio avviso, che noi persone transgender siamo figure di spicco della riflessione.

Dobbiamo essere noi innanzitutto a parlare di noi, e non altri. Dobbiamo narrare e teorizzare partendo dall’esperienza che abbiamo vissuto sulla pelle in prima persona, perché troppo spesso chi parla e teorizza sull’esperienza trans ne travisa completamente l’essenza e il senso. In seconda istanza perché l’aver vissuto i due generi nella stessa vita genera consapevolezze che vite a genere unico normalmente faticano a cogliere.

Quel che abbiamo provato, l’essere percepiti come appartenenti a due generi differenti nel corso della stessa vita e il conseguente cambio di prospettiva, così come l’aver sentito, amato e sperimentato un corpo in trasformazione, è il nostro importante bagaglio che dovrebbe divenire un faro per gli studi di genere futuri.

Per continuare a produrre la nostra letteratura e alimentare il nostro apporto agli studi di genere, è comunque bene utilizzare i riferimenti di altre esperienze e soggettività. Per costruire la nostra scatola degli attrezzi, come anch’io ho tentato di fare negli anni, dobbiamo studiare elaborazioni anche divergenti fra loro e sto pensando al femminismo della differenza e al pensiero queer.

Nell’auspicare un futuro in cui saremo maggiormente prese e presi in considerazione (a partire dall’ambito accademico troppo spesso a noi chiuso e precluso), rivolgo il pensiero a quelle donne transgender che fino a oggi hanno costruito una nostra bibliografia incidendo sull’evoluzione del pensiero critico in Italia.

Da Porpora Marcasciano a Mirella Izzo, da Helena Velena a Diana Nardacchione fino a Martine Rothblatt il cui saggio L’apartheid del sesso, giunto da oltreoceano alla fine degli anni Novanta, ha inciso sulla presa di coscienza rispetto al genere di molte e molti di noi, queste donne transgender hanno dimostrato che la presa di parola in realtà è a semplice portata di mano.