Sanremo quest’anno, secondo i suoi detrattori, è stato il festival “dell’ideologia gender”. Platinette era lì e questa è la sua graffiante analisi.

(prima pubblicazione Pride marzo 2017)

 

Mi fa quasi tenerezza, non fosse che è più forte la voglia di dargli un’unghiata “taglio French” e segargli i bulbi piliferi della barbona con una motosega, ma Mario Adinolfi, almeno per la famosa legge del contrappasso, ha messo in luce come ha potuto una evidenza di cui in realtà gliene fregava ben poco alla comunicazione in generale, troppo presa da “Maria” & dintorni.

Le ragioni di Adinolfi erano tutte all’insegna di “ma quanti, troppi gay a Sanremo”, di fatto una verità non consolatoria ma nemmeno così inquietante come vorrebbe il mio “non smilzo” fratello di taglia e non certo d’altro.
Troppi gay, tutti con una visibilità fin eccessiva, e ora che abbiamo il canone TV nella bolletta “Al Festival” – accusa – “ci sono ospiti che noi paghiamo e che sono simboli dell’ideologia gender, nonché testimonial dell’utero in affitto. Tiziano Ferro, Ricky Martin, Carmen Consoli, tutti testimonial della maternità surrogata o dei figli con un genitore solo. Non è casuale, c’è una logica”.

Dunque questa sarebbe se vedo Ricky Martin che “suda come un maiale”, e ancora “non voglio pagare il figlio di Tiziano Ferro con i soldi del mio canone” fino a (chi)osare “Perché i festival di Carlo Conti sono stati i festival di Conchita Wurst, di Elton John, Ricky Martin e Tiziano Ferro? Perché Sanremo deve diventare una bandiera dell’ideologia gender? Ormai bisogna pagare la tassa alla nuova ‘Gaystapo’, è obbligatorio, c’è un’operazione di regime e di violenza verso chi la pensa diversamente”.

Che poi Carlo Conti si sia negato al bacio con Mika (eccone un altro…), come proposto dagli autori del programma poco importa ad Adinolfi, mentre il bacio “etero” tra Maria de Filippi e Robbie Williams sembrava richiedesse più attenzione di quello tra Clark Gable e Vivien Leigh in Via col vento. Misteri del “televisionario” che è in me, ma col piffero che qualcuno abbia ricordato che, proprio nel primo festival condotto da Carlo Conti, il sottoscritto insieme a Grazia di Michele cantò Io sono una finestra, l’unico vero brano dove “l’argomento” era l’incertezza sul “gender”, la paura di non sapere se “venir fuori o no”, i dubbi su un’appartenenza univoca. Di sicuro i contenuti erano più “importanti” di chi eseguiva il brano.

È pur vero che qualche anno prima un certo Povia, quello dei piccioni (e volgarmente aggiungerei anche quello delle “fave”) si misurò con la sua Luca era gay suscitando una serie di polemiche fra le associazioni in difesa dei diritti LGBT con la tesi che “gay non si nasce ma si diventa” e si può anche, diciamo, guarire, come se essere omosessuali fosse una malattia. L’anno precedente Anna Tatangelo (già nota per la divertente Essere una donna), si mise a descrivere il “suo amico”, un parrucchiere… gay (beh, molto originale davvero).

Si metta nel calderone che proprio pochi giorni prima di Sanremo 2017 Michele Bravi, un cantante della categoria giovani arrivato quarto con Il diario degli errori (e i riferimenti alle proprie turbe di appartenenza son fin troppo chiare nel delizioso e commovente motivetto), dichiara: “Non vorrei usare etichette, appartengono alle vecchie generazioni e discendono da un modo di ragionare che considero superato e anche un po’ discriminatorio. Preferisco parlare di relazioni fluide. I miei fan, quando gli ho detto che il nuovo disco avrebbe parlato di una storia d’amore, non mi hanno chiesto se si trattava di un uomo o di una donna, e il linguaggio amoroso oggi sul web usa frasi come ‘sei la mia persona’. Non ho bisogno di fare coming out perché nessun giovane si stupisce che mi sia innamorato di un ragazzo, e penso che nessuno dei miei coetanei si tirerebbe indietro se gli capitasse di provare un’emozione per una persona dello stesso sesso. Io ho incontrato una persona che mi ha emozionato, che fosse un ragazzo è del tutto irrilevante: in futuro potrebbe succedermi anche con una ragazza”, rilanciando il “fluido” e il “bisessuale” come categorie possibili, laddove, soprattutto nello spettacolo, si tenta di non “discriminare” nessuno, nemmeno gli etero.

Già, etichettare come “gay” i festival di Conti è quantomeno azzardato a meno che non si considerino, nei lustri e nei decenni passati, nulle o “vaghe” le presenze non solo di “VIP” ma anche di gente comune, come i due fidanzati Stefano e Federico che, invitati sul palco dell’Ariston da Fabio Fazio, illustrarono a cartelli il loro desiderio di contrarre matrimonio ma che per farlo sarebbero andati a New York perché (allora) le leggi italiane non lo permettevano. Ora la legge c’è, e dopo il primo entusiasmo le coppie unite di fatto non sembrano poi avere tutta questa “voglia di suocera”. Se Fazio e la Littizzetto, allora conduttori, fornivano un assist a far sì che la legge divenisse tale e attiva, va “anche” bene che in un festival di solo cinque anni dopo ci sia una “predominanza” gay. Che comunque ciò faccia ancora discutere è perlomeno singolare.

Se “il pesce puzza sempre prima dalla testa”, a presentare il Sanremo degli albori ci fu tale Nunzio Filogamo che, gentile e affettato, lanciò la celeberrima frase “Cari amici vicini e lontani”. Con la diffusa e conformista ipocrisia di allora però nessuno lo mise mai in croce per questo, salvo poi allontanarlo pian piano dalla TV relegandolo a ruoli marginali nella radio di stato. Della perigliosa vita di Umberto Bindi, più volte presente al festival, se ne parlò solo dopo la sua scomparsa, mentre del giovane Renzo Rubino, gay che non “disturba” (e terzo posto nel 2013 con Il Postino (amami uomo), si sono un po’ perse le tracce. Altro che bruscolini, e quando arrivò Rufus Wainwright scoppiò una mezza polemicuccia subito sedata dalla sua performance “blasfema”, ma nel complesso mai si è arrivati, come in questo ultimo anno a “notare” la massiccia presenza di gay nel tempio (forse ex tempio?) della canzone Italiana. Per dire una banalità: tra assistenti, truccatori e parrucchieri se si dovesse o volesse fare la conta diventerebbe difficile anche solo metterlo su un festival di Sanremo, ma i dietro le quinte contano poco sul fronte del “conteggio” gay oriented.

Poco hanno potuto le Sentinelle in piedi (mi chiedo ma quando vanno a casa almeno si siedono, si stendono o stanno sempre in piedi?) per annullare il glamorous festival dell’ingresso di Maria, vera icona gay come poche nella storia della TV popolare quasi al pari, se non di più, di una primigenia Raffaella Carrà.

Il festival, insomma, marcia verso il “tutto è possibile” e il vero tocco “stra-gay” come nessun’altra poteva ardire lo ha aggiunto Lei, Mina Mazzini da Cremona, un vero graffio alle convenzioni, con la voce a palla sul brano dance dello spot del gestore telefonico sponsor di Sanremo 2017. Il disegnino dell’inconfondibile profilo con i capelli a coda di cavallo su un lato del teleschermo, poi turbodance a manetta e, apriti o cielo di Riviera, il parlato “Tim Tim Tim… è bello avere tutto”. Nemmeno un soggettista di filmetti da commercio illegale avrebbe potuto restituircela così, che “recita lo spot” come fece prima con la pasta e la cedrata. A Lei dobbiamo l’arcobaleno di un “sentire” così condivisibile, e l’insegnamento di “osare per essere”. Mal che vada si sarà provata anche per poco, l’ebrezza di vivere la vita in un altro modo. Come dire “Due prospettive is mej che uan”.