Il primo film da regista di Veronica Pivetti racconta di un coming out adolescenziale e sta girando da due anni nelle scuole italiane, creando qualche malumore nei nemici della “teoria del gender”. Abbiamo intervistato la vulcanica attrice.

(prima pubblicazione Pride aprile 2017)

 

Non è ancora iscritta all’anagrafe delle icone gay, ma le carte in regola ce le ha tutte: arguta, spumeggiante e autoironica, a Veronica Pivetti manca solo una vita privata tormentata e qualche ruolo da interprete drammatica, che però – si lamenta lei – nessuno ha mai pensato di affidarle. Per ora ci faremo bastare la sua carriera da doppiatrice e quelle di attrice e conduttrice brillante. Per il suo debutto alla regia cinematografica Pivetti ha scelto, invece, una storia di formazione adolescenziale: le traversie del sedicenne Rocco quando si accorge di essere gay e per questo motivo getta scompiglio all’interno della famiglia – tra cui la madre Olga, interpretata dalla stessa Pivetti – e tra i compagni di scuola; anche se l’assillo del ragazzo emerge tutto, la storia è raccontata in forma di commedia.

Uscito nelle sale in poche copie nel 2015, la vocazione di argine contro il bullismo di Né Giulietta né Romeo è stata valorizzata solo più tardi, quando ha ricevuto il patrocinio di Amnesty International (il primo per una commedia) e oltre a girare nei festival e all’estero ha cominciato una lunga sequenza di proiezioni itineranti che lei stessa ha curato nei mesi scorsi all’interno delle scuole italiane, provocando il fastidio dei soliti paladini “antigender” della destra e dei cattolici, al netto di una felice collaborazione con le associazioni arcobaleno del nostro paese, soprattutto Agedo.

L’ultimo polverone l’ha sollevato, tra gli altri, il capogruppo della Lega Nord in Regione Lombardia Massimiliano Romeo all’indomani della presentazione del film all’Istituto Cavalieri di Milano: “Quella proiezione è stata grave perché non ha nulla a che vedere con le linee didattiche stese dal ministero […]. In realtà, si è permesso di trasmettere in un istituto educativo una pellicola dedicata espressamente alla propaganda LGBT. Mi chiedo se i genitori degli studenti siano stati preventivamente informati della reale natura della pellicola“.

Durante una pausa dal set della sua fiction, intercettiamo Veronica per un’intervista e lei commenta così la diatriba: “Nemmeno avessi fatto Ultimo tango a Parigi! Sono davvero molto onorata di tutta questa polemica. Dico solo che chi parla in questi termini del film non lo ha visto: quando ho letto quello che pensano che ci sia, mi sono quasi pentita di non avercelo messo sul serio. È pur vero che ci ho fatto un film apposta, contro i pregiudizi, per cui incontrarne qualcuno non è che mi stupisca. Purtroppo noto che l’omosessualità è un argomento sempre molto di moda in questo paese retrogrado e bigotto. Come regista potrei anche esserne contenta, come cittadina un po’ meno”.

Tutta pubblicità a costo zero? “Un po’ di bailamme va bene se questo fa sì che si parli della questione. Non pretendevo di fare un’operazione necessaria, ritengo però sia utile parlare di queste cose e i detrattori me ne stanno dando ragione. Poi, di avere la Lega come detrattore sono orgogliosa, perché se la pensassimo allo stesso modo sarei piuttosto preoccupata”.

Delle decine di proiezioni del film nelle scuole italiane Pivetti si dice entusiasta, perché la storia di Rocco ha creato l’occasione per parlare di (omo)sessualità a ragazzi e professori, in larga parte molto contenti del contributo al dibattito fornito dal film, che continuerà il suo tour anche nel prossimo autunno: “Non avrei mai immaginato che gli studenti fossero così tanto più illuminati degli adulti: dove non esistono pregiudizi, o ce ne sono meno, si riesce a comunicare di più. Tutte le volte i ragazzi hanno raccontato le loro storie personali e mi sono accorta del bisogno profondo che avevano di essere ascoltati proprio sui temi dell’affettività, dove invece sono lasciati molto soli. Fra loro c’è stato anche qualche coming out, ma non diciamolo troppo perché questo scandalizzerebbe ancora di più i benpensanti. Che stiano pure tranquilli: non è certo il mio film a far diventare omosessuali!”.

Pivetti racconta poi un aneddoto legato alla lavorazione della pellicola: “Uno dei comprimari è un giovane gay che in realtà è il detonatore della storia e permette al nostro protagonista di prendere coscienza di sé; un ruolo di poche pose, qualche giorno di lavoro, però determinante nella storia. Ecco, io avevo scelto un ragazzo alla sua prima esperienza come attore, contentissimo di avercela fatta, così come la sua mamma che era venuta al provino. Dopo tre giorni mi chiama proprio la madre: ‘Lorenzo non vuole fare più il ruolo’. ‘E come mai?’, dico io, anche se non nascondo che il problema già me lo immaginavo. ‘Perché sa, quel ruolo… Lui deve interpretare un gay!’. Beh, il film è su quello, ribatto. ‘Lo so, però lui ha paura che gli amici lo prendano in giro!’.

Subito dopo ho incontrato sia il ragazzo che la madre e alla fine lui ha accettato la parte, è stato perfetto ed è andato tutto bene. La riflessione però è un’altra: in questo paese sciagurato un giovane di 17 anni che vuole fare l’attore e viene scelto per un bel ruolo ha paura che il solo interpretare un omosessuale – quindi fingere di esserlo e non esserlo sul serio – lo esponga agli scherzi degli amici. Se gli avessi proposto la parte di un killer avrebbe avuto problemi? Io dico di no, sarebbe stato fiero di fare l’eroe negativo. Tutto questo non ha bisogno di altre interpretazioni: vuol dire che la coercizione culturale che viene esercitata su questo argomento, in Italia è totale”.