Dopo aver pubblicato un intervento contro la PrEP, una terapia farmacologica in sperimentazione per ridurre i contagi da HIV, diamo la parola al presidente di un’associazione di persone sieropositive che è a favore della pratica.

(prima pubblicazione Pride settembre 2017)

 

Ci sono passati gli Stati Uniti, adesso tocca a noi. La stigmatizzazione delle persone che prendono la PrEP o che sono interessate a farlo è un fenomeno noto. I motivi? La profilassi pre-esposizione o PrEP è un modo per proteggersi dall’infezione da HIV: si prende un farmaco – una pillola al giorno oppure solo nei periodi in cui si fa sesso secondo dosi e scadenze precise – e si evita il contagio da HIV nei rapporti sessuali anche nel caso in cui il preservativo si rompa o che non lo si usi proprio. È questo punto a sollevare obiezioni: avere un’alternativa al condom viene visto come un modo per disincentivarne l’uso. E poi – afferma chi è contrario alla PrEP – siamo sicuri che funzioni? E perché dovremmo usare soldi pubblici per “aiutare” persone che non usano il preservativo a proteggersi dall’HIV? Allora proviamo ad analizzare alcune delle questioni sollevate, anche su questo giornale, da personaggi che si schierano apertamente contro l’introduzione della PrEP.

“I farmaci vanno usati e venduti quando ce n’è bisogno”.
Questa è la frase con cui si chiude un articolo pubblicato a luglio su Pride (“PrEP: una pessima idea”, a firma di Giovanni Dall’Orto) che ha scatenato infinite polemiche sui social network. Una frase del tutto condivisibile. Il punto è: chi decide quando c’è tale bisogno? Il giornalista o il medico?
Un numero sempre maggiore di clinici specialisti in infettivologia sostengono che, per quanto riguarda l’HIV, la profilassi pre-esposizione è decisamente un male minore dell’infezione, e sono disposti a prescriverla. Un po’ come accade nel caso dei vaccini obbligatori o non, si scontra qui la posizione della scienza con quella del parere personale di soggetti non portatori di una specifica formazione. Di chi vogliamo fidarci?

“La PrEP è una invenzione delle case farmaceutiche per fare soldi”.
La profilassi pre-esposizione non è una recente invenzione della Gilead Science che produce il Truvada® (a oggi l’unico farmaco autorizzato per la PrEP). I primi studi sulla PrEP sono stati studi indipendenti che hanno ricevuto solo il farmaco in donazione da Gilead. E coloro che li hanno condotti non hanno risparmiato critiche alla compagnia farmaceutica per l’atteggiamento giudicato troppo avido nei confronti del mercato a scapito della salute delle persone. Inoltre il concetto di prevenire una infezione con i farmaci non è nuovo. Esempio classico la profilassi pre-esposizione anti malarica che viene fatta alle persone che viaggiano in zona ad alta endemia.

“Perché dovremmo pagare per consentire ai gay di fare sesso come vogliono?”
In Italia abbiamo la curiosa abitudine di considerare il sesso e l’attività sessuale come qualcosa di basso profilo, qualcosa di cui non parlare se non con pudore e una punta di vergogna. Una impostazione culturale, di derivazione cattolica, che agevola enormemente le infezioni a trasmissione sessuale (IST) in Italia. In effetti una parte molto consistente delle IST viene diagnosticata tardi (o mai) proprio per la vergogna di confessare le pratiche sessuali che ci piacciono. Lo stesso dicasi per l’HIV, nel qual caso si aggiunge il timore del giudizio pubblico qualora l’infezione sia stata determinata dall’assenza del condom.
Sì, noi gay, intellettuali del movimento in testa, siamo bravissimi a giudicare i comportamenti e le pratiche altrui sulla base delle nostre. Il “prendi me per esempio” è uno sport nazionale che finisce per relegare in un angolo chi non segue la retta via. In un angolo e in silenzio, per la felicità dell’HIV.

Le diagnosi tardive in HIV non sono una sciocchezza ma un elemento di pericolosità molto concreto. Ancora oggi vediamo persone sieropositive che ricevono la diagnosi in AIDS, o prossime a quello stadio. Una diagnosi tardiva comporta un rischio per la vita, un sistema immunitario compromesso che faticherà anche anni a ricostituirsi, la creazione di serbatoi enormi di virus latente. Buona parte di queste persone avevano semplicemente paura di fare il test. A ben vedere non è tanto la paura di HIV quanto il timore dell’isolamento sociale e del giudizio che HIV porta con sé, anche dentro la comunità omosessuale italiana che, del resto, è una delle più ipocrite d’Europa. È questa ipocrisia, questa paura dello stigma sociale che tiene lontane molte persone dal test, lasciando circolare nella nostra comunità l’infezione. È noto, infatti, che la stragrande maggioranza delle nuove infezioni da HIV avvengono per trasmissione da parte di persone che non sapevano di essere sieropositive. Invece, quasi la totalità di chi sa di avere l’HIV ha iniziato la terapia antiretrovirale, che nel giro di sei mesi abbasserà la quantità di virus nel suo corpo a livelli tali da non poter più essere trasmesso ad altri nei rapporti sessuali. Eppure anche a quasi dieci anni dall’introduzione del trattamento come prevenzione (TasP) e nonostante sia più che consolidato il concetto che se a viremia non rilevabile la persona con HIV non è contagiosa, c’è ancora qualcuno che ci chiama “untori”, siamo sempre pronti a puntare il dito, per la gioia della massa informe di presunti giornalisti più attratti dallo scandalo che dalla cultura giornalistica.

“Chi fa sesso non protetto si rende responsabile della diffusione delle malattie e vanno fermati perché lesivi del diritto alla salute della collettività”.
Su questo concetto si basa ciò che nelle conferenze scientifiche viene chiamata “criminalizzazione dell’HIV”. Si tratta di un uso distorto delle leggi penali rivolto contro le persone con HIV. Diverse analisi hanno dimostrato che questo approccio non aiuta la prevenzione: condannare, anche in tribunale, le persone per la vita sessuale che conducono non porta a un cambiamento dei comportamenti ma semplicemente al fatto che quelle persone continueranno a fare le cose che facevano ma il più possibile di nascosto, senza parlarne a nessuno. (Si possono trovare maggiori informazioni sul sito www.hivjusticeworldwide.org/en/old-site/italiano/). In altre parole, se una persona ha appena saputo di avere una IST (per non parlare dell’HIV), preferisce non dirlo al proprio partner sessuale per evitare da un lato il rifiuto e dall’altro la possibilità che questo lo denunci. Mantenendo tutto nella segretezza, si continua ad alimentare quel sommerso che è il vero serbatoio che alimenta l’epidemia di HIV.

La sessualità è una componente molto importante della nostra vita. Addirittura il movimento gay ha mosso i primi passi proprio dalla difesa della sessualità, anche vissuta senza limitazione al numero di partner. Cercare di condizionare questa parte della nostra vita è estremamente difficile: noi viviamo la sessualità in relazione a quello che siamo, per cambiarla dovremmo cambiare noi stessi. Ecco perché gli studi che misurano l’efficacia delle campagne che promuovono il cambiamento dei comportamenti sessuali, incluso un maggior uso del condom, non mostrano risultati esaltanti.

La PrEP è pensata per aiutare chi già ha difficoltà a usare costantemente il preservativo. Condannare queste persone, imporre l’uso del condom (che facciamo? glielo fondiamo addosso?…) non fa altro che peggiorare la situazione.

“La PrEP non è la strada giusta per fermare l’HIV”.
La PrEP in HIV è uno degli strumenti di prevenzione utili a ridurre la circolazione del virus nelle comunità maggiormente colpite. Va nella direzione della riduzione del rischio, una tecnica di prevenzione utilizzata anche dallo stato italiano in molti ambiti a partire dalle dipendenze. Non è un’arma magica, da sola non basterebbe di certo. Anche perché non è per tutti. La PrEP è uno strumento da aggiungere agli altri disponibili per la prevenzione.

I ricercatori francesi che hanno presentato i dati nazionali durante ICAR (conferenza italiana AIDS) a quasi due anni dall’introduzione della PrEP gratuita nel paese, hanno mostrato dati su quasi 3000 persone che ne fanno uso. La PrEP non nasce per essere erogata a tutti, scatola in mano e fuori. Tutti gli studi hanno ottenuto risultati con la PrEP unitamente al counselling, all’offerta del condom e del lubrificante, al set di test per le IST che ovviamente devono essere monitorate. A chi sta pensando chi me lo fa fare, rispondo certo, vero, se pensi questo non sei una persona adatta ad assumere la PrEP. Infatti in Francia sono solo 3000 su 60 milioni di abitanti.

La prevenzione in HIV è costituita da una serie di fattori, lo si sente da anni in tutte le conferenze scientifiche. Una prevenzione combinata che prevede il condom, la circoncisione maschile, la TasP, la Pep (cioè la profilassi post-esposizione che consente di evitare l’infezione se ci si espone a un rischio assumendo un mese di terapia antiretrovirale a partire da poche ore dopo l’episodio a rischio), la PrEP. Tutti questi strumenti più interventi seri per ridurre lo stigma nei confronti delle persone con HIV o a rischio di contrarlo, devono essere usati in combinazione se davvero vogliamo creare quella che l’OMS chiama “una generazione senza AIDS”. Se siamo noi i primi a selezionare le possibili combinazioni sulla base di idee preconcette prive di qualunque fondamento, continueremo ad avere le 3/4000 nuove diagnosi ogni anno, continueremo a ricordarci di HIV solo il 1 dicembre, a discriminare chi vive con HIV come se un’infezione fosse una colpa e, soprattutto, HIV continuerà a circolare come oggi nel paese. Io continuo a dire che anche solo una infezione evitata è una vittoria per tutta la comunità.

 

OBIEZIONI CHE NON CONVINCONO

Ho deciso di pubblicare questo intervento a favore della PrEP, oltre alla rubrica che segue nelle prossime pagine, perché l’articolo “La PrEP: una pessima idea” di Giovanni Dall’Orto sul numero scorso di Pride ha scatenato un ampio dibattito sull’argomento. Evidentemente era ora che si discutesse pubblicamente di prevenzione e dell’eventualità di utilizzare un farmaco antiretrovirale per evitare nuove infezioni da HIV. Ovviamente il dibattito è risultato ferocemente polarizzato. Da una parte c’è chi sostiene che la PrEP sia uno strumento buono, nuovo e rivoluzionario, come scrive Sandro Mattioli. Dall’altra ci sono molti che sostengono che la PrEP sia da rifiutare: è infatti un’idea quantomeno discutibile curare persone sane, e la terapia non protegge da sifilide, condilomi, epatiti e così via.
Al di là degli insulti che ci sono piovuti addosso (come “sessuofobi”, “bacchettoni” o “crociati del condom”) ribadisco che sul tema, e prima di assumere qualunque terapia, è preferibile, a mio modesto parere, il secondo atteggiamento che può vantare una buona dose di prudenza in più. Le obiezioni di Mattioli, infatti, non mi hanno convinto e non rispondono agli argomenti che abbiamo affrontato. Il problema principale della PrEP è che può deresponsabilizzare dall’uso del preservativo e che tutela sì dall’HIV (forse al 99%), ma non da tutte le altre malattie a trasmissione sessuale. Inoltre, l’assunzione della PrEP può avere effetti collaterali pesanti sull’organismo. È anche massiccio (e sospetto) il marketing pro PrEP come sostituto del condom, e chi qui sostiene che la PrEP sia una gran bella cosa fa parte di un’associazione finanziata dall’azienda che produce il farmaco alla base della terapia. La sua quindi non è una voce neutrale.
Ben venga qualunque strumento utile a prevenire l’HIV, ci mancherebbe. Ben venga quindi anche la PrEP, un farmaco necessario per gli irriducibili del “no condom”, per gli allergici al lattice o per le coppie sierodiscordanti… ma per chi altro? In questo dibattito, che mi auguro continuerà, non dimentichiamo le nostre radici militanti e il sacrosanto diritto di ognuno di usare il corpo come meglio crede. Ma non è ancora tempo di pensionare il preservativo, purtroppo.

Stefano Bolognini