Chi rispetta la terapia non può trasmettere il virus dell’HIV: è ormai scientificamente provato. Un motivo in più per celebrare la prevenzione e la giornata mondiale per la lotta contro l’AIDS del 1° dicembre.

(prima pubblicazione Pride dicembre 2017)

 

“U=U”. È questo lo slogan che la fa da padrone per la giornata mondiale per la lotta contro l’AIDS del 1o dicembre 2017. E non ci potrebbe essere modo più sintetico per comunicare una scoperta scientifica così innovativa come il fatto che l’HIV non si contrae da una persona sieropositiva in terapia efficace.

Lo slogan, coniato da Bruce Richman della Prevention Access Campaign, sta per: Undetectable = Untrasmissable. In italiano suona come: non rilevabile = non contagioso. Più precisamente, le persone con HIV che hanno una quantità di virus nel sangue così bassa da non poter essere rilevata dai test comunemente impiegati (“non rilevabile”) non possono trasmettere l’infezione ai loro partner sessuali (“non contagioso”). Una verità scientifica ormai definitivamente assodata e che è al centro di numerose campagne lanciate in questo periodo. Dal network di persone LGBT sieropositive Plus che già da anni partecipa ai pride con lo slogan “Positivo ma non infettivo”, alla Lila che ha recentemente lanciato la campagna “Noi possiamo”, per far sapere che le persone con HIV possono avere una vita piena e soddisfacente, anche dal punto di vista sessuale, come chiunque altro. Eppure, nonostante questo, l’idea che una persona con HIV possa non essere in grado di trasmettere l’infezione è ancora poco diffusa.

“Come mai non se ne parla?” chiedono infatti molti quando gli viene spiegato questo concetto. La verità è che, come ogni novità rivoluzionaria, anche questa ha avuto difficoltà ad affermarsi. Quando è stata ufficialmente affermata per la prima volta era il gennaio 2008: la commissione federale svizzera emanò una dichiarazione – passata poi alla storia come la “dichiarazione svizzera”, appunto – in cui affermava che le coppie eterosessuali in cui un partner fosse sieropositivo, stabilmente in terapia, con una quantità di virus nel sangue (tecnicamente la “carica virale”) non rilevabile da almeno sei mesi e senza altre infezioni sessualmente trasmissibili potevano concepire in modo naturale. In altre parole, potevano fare sesso senza preservativo per cercare di avere un bambino.

Molte persone che vivono con l’HIV salutarono l’apertura con sollievo: finalmente, si poteva smettere di considerarsi potenzialmente pericolosi per i propri partner sessuali. Si sperava che l’idea che una persona sieropositiva potesse non essere una fonte di infezione alleviasse decenni di stigma. Ma le cose non erano così semplici: furono tanti i medici che si scandalizzarono, credendo che si stessero buttando via anni di prevenzione e che si aprisse la strada a una nuova esplosione di contagi. Lamentavano l’insufficienza delle prove scientifiche sulle quali la dichiarazione svizzera era basata.

In realtà, nel corso degli anni, sono stati numerosi gli studi condotti con metodo rigoroso che hanno confermato quanto detto dagli esperti elvetici. Ma, soprattutto, in tutto il mondo, in tutti questi anni, non c’è stato un solo caso documentato di trasmissione dell’HIV da parte di una persona con carica virale stabilmente non rilevabile. Indipendentemente dalla presenza di altre infezioni. E anche nel caso di coppie omosessuali!

Nei congressi scientifici sull’HIV e l’AIDS si è cominciato a parlare sempre più spesso di TasP, cioè “Treatment as Prevention” (da noi, “terapia come prevenzione”). Si è pensato che se tutte le persone con HIV seguissero la terapia antiretrovirale – quella che, appunto, è in grado di abbassare fino a livelli non rilevabili la quantità di virus presente nell’organismo – si sarebbe potuto fermare la diffusione dell’infezione.
Purtroppo le cose non sono così semplici: prima di scoprire di avere l’HIV, una persona vive generalmente per mesi o anche anni senza accorgersi di nulla, spesso nella convinzione di essere sieronegativa. Una situazione in cui facilmente si pensa di non poter essere un veicolo di infezione e si può abbassare la guardia. È dimostrato, infatti, che almeno il 70-80% delle nuove infezioni avvengono perché si viene contagiati da qualcuno che non sapeva di avere l’HIV. Chi sa di averlo, nella stragrande maggioranza dei casi, almeno in Italia e in altri paesi occidentali, è seguito in un centro per il trattamento per l’HIV, molto spesso è in terapia e se la segue adeguatamente ha carica virale non rilevabile. Cioè, non può trasmettere il virus.

Facciamo un esempio: conosci una persona che ti dice che si controlla regolarmente, che ha fatto il test HIV tre mesi fa ed era negativo e decidete di fare sesso senza preservativo. Lui non sa di aver contratto il virus un mese prima, durante un altro rapporto sessuale. E ora la quantità di virus nel suo corpo è ai massimi livelli: è infatti nelle 3-6 settimane dopo il contagio che la replicazione raggiunge il suo apice, prima che il sistema immunitario metta in campo le scarse risorse di cui è capace per limitare il moltiplicarsi del virus nell’organismo. In queste condizioni, le possibilità che tu possa contrarre l’infezione sono purtroppo piuttosto alte. Sicuramente molto più alte di quelle che avresti facendo sesso senza preservativo con una persona che ti dice di avere l’HIV ma che è stabilmente ed efficacemente in terapia.
Il messaggio potrebbe quindi essere il seguente: si può prendere l’HIV più facilmente da una persona che si considera, erroneamente, sieronegativa che da una sieropositiva undetectable.

Eppure ancora oggi la paura verso le persone con HIV dilaga, anche nell’ambiente gay. Basta dare un’occhiata ai profili delle chat: chissà se le tante persone che indicano di cercare “solo sani” si rendono conto di quanto una frase del genere possa essere stigmatizzante e, soprattutto, come possa essere inutile se non controproducente in termini di prevenzione. È questo tipo di frasi, infatti, che contribuisce a creare un ambiente poco accogliente per le persone con HIV, che sono quindi scoraggiate dal dichiarare il proprio stato. Incorrendo a volte in situazioni particolarmente spiacevoli… Come è successo a Paolo, che ieri ha fatto sesso con un ragazzo, e hanno pure usato il preservativo: Paolo convive con l’HIV da diversi anni ma segue scrupolosamente la terapia e la sua carica virale è non rilevabile da un bel pezzo. Dopo l’incontro – attenzione: dopo! – Paolo riceve un messaggio: “mi assicuri che sei sano e fuori da giri strani?”. È una frase che in tanti si sono sentiti dire e che rivela molto: innanzitutto il fatto di chiedere rassicurazioni “dopo” che tutto è accaduto la dice lunga su quanto siamo capaci di gestire consapevolmente la nostra vita sessuale; e poi il riferimento ai “giri strani” rivela come ancora tante persone, inclusi tanti gay, credano che l’HIV sia relegato a specifici ambienti. Cosa ovviamente infondata.

Ma cosa succede a Paolo quando riceve questo messaggio? Comprensibilmente va nel panico. Mette insieme un vago “stai tranquillo” e comincia a sentirsi una merda. “Avrei dovuto dirglielo?” si chiede. E se lo chiedono in molti, sieropositivi e no.

“In Italia non esistono leggi specifiche che obblighino in tutti i casi le persone con HIV a dichiarare il proprio stato ai loro partner sessuali”, spiega Francesca Manfredi, autrice di Virus HIV e responsabilità penale, “ Rispetto all’HIV, la norma di riferimento è il delitto di lesioni personali gravissime che si applica nel caso una persona procuri del danno di salute a un’altra; in altre parole, affinché una persona possa essere chiamata in giudizio, in linea di massima è necessaria la trasmissione del virus.  Tuttavia, l’utilizzo corretto del preservativo e la carica virale non rilevabile, inibendo la trasmissione del virus, sembrano efficaci strumenti contro forme di condanna”.

Questa precisazione è particolarmente importante in un momento come questo in cui i giornali hanno dato ampio spazio al caso di Valentino Talluto, il giovane romano condannato in primo grado a 24 anni per aver contagiato con l’HIV decine di donne. Un caso che, complice il linciaggio messo in atto dai media, rischia di ridare forza allo stigma che ancora persiste verso chi vive con l’infezione. Valentino avrà tutte le sue colpe, che sono giustamente valutate nei tribunali. Ma quello che il suo caso ha sollevato è l’aria di pesante stigmatizzazione che si respira ancora intorno all’argomento e alle persone con HIV. Un’aria che rischia di spingere ancora di più chi convive con il virus nell’invisibilità e di sdoganare comportamenti ostili che si registrano ovunque: nei luoghi di lavoro, nelle chat o nei locali gay, e persino negli ospedali. Una ostilità che inevitabilmente alcune persone sieropositive introiettano e traducono in una perdita di autostima.

Secondo una recente ricerca presentata alla conferenza europea sull’HIV svoltasi a ottobre a Milano, almeno il 75% delle persone con HIV intervistate riferisce di aver sofferto di una qualche forma di stigma nell’ultimo anno, e più di un quarto denuncia un problema di autostima. Non sorprende che a parlare apertamente della propria condizione con altre persone al di fuori della cerchia più ristretta degli amici sia solo il 30% degli intervistati. Insomma, se vogliamo fermare la diffusione dell’HIV, dobbiamo creare un ambiente più accogliente per le persone che convivono con il virus. E cominciare a prendere atto dello slogan 2017 “U=U” può essere un ottimo primo passo in questa direzione.