Qual è lo stato di salute del movimento LGBT italiano? Proviamo a capirlo attraverso le esperienze di alcuni ex attivisti, persone che dopo anni di militanza hanno deciso di abbandonare l’associazionismo gay.

(prima pubblicazione Pride febbraio 2017)

 

Lo aveva detto anche Franco Grillini nella lunga chiacchierata con Pride il mese scorso: “Penso sia sbagliato concepire il movimento come una cosa sola. L’articolazione pluralista della politica e del sociale è positiva: significa che c’è confronto vero delle idee e dei modi di pensare e di agire, per cui se una cosa viene ben fatta da un gruppo può essere copiata e adottata positivamente da un altro. Non è detto che tutti debbano pensarla allo stesso modo o stare nella stessa organizzazione”. Un punto di vista esterno d’eccellenza ci fornisce l’aggancio per continuare a indagare lo stato del movimento LGBT italiano all’indomani della legge Cirinnà, stavolta guardandolo dall’interno: attraverso gli occhi di chi, per le più svariate ragioni, dalle associazioni e dalla militanza attiva ha preso le distanze e perciò diventa prezioso per capire quali potrebbero essere i loro punti critici più evidenti.

Per fugare eventuali polemiche, Daniel De Lucia, ricercatore abruzzese di linguistica di 33 anni e autore del libro Il gergo gay italiano, preferisce non citare il circolo gay frequentato anni fa, perché adesso “mi sono allontanato dall’associazionismo omosessuale nella sua globalità”.

Daniel ha fatto coincidere l’ingresso in un gruppo gay col suo coming out, occupandosi da subito di counselling ma rifiutando incarichi nel direttivo. Uno dei problemi riscontrati fin da subito è il formarsi di fazioni contrapposte che spesso sfociano in ostilità verbali molto accese.

Il casus belli definitivo occorre però in occasione della tentata pubblicazione di un articolo sul giornalino gestito dalla stessa associazione: “Mi fu rifiutato perché le mie tesi erano contrarie a quelle di un intellettuale intoccabile notoriamente gay-friendly. Una volta di più avevo la dimostrazione che l’associazionismo omosessuale, nonostante la comunanza di ideali, a volte perpetua una tendenza tutta italiana per cui chiunque può sentirsi padrone di dire qualsiasi cosa, nonostante sia priva di senso. Non è un difetto quando l’associazionismo nasce per passione e non per preparazione; la passione però rischia di diventare esaltazione, mentre la preparazione conduce alla riflessione e dunque all’evoluzione”. Rispetto agli scenari futuri del modo di fare associazionismo gay, De Lucia pensa che l’approvazione della legge sulle unioni civili “abbia frenato un po’ gli ideali di cambiamento: molti si stanno accontentando di questa formula piuttosto che del matrimonio. Parallelamente sembra scemare l’impulso per avere una legge contro l’omofobia e una per le adozioni. Considero fondamentale usare i social network per la militanza capillare del futuro: non dimentichiamo che l’Italia è fatta di centri urbani emarginati dove le lotte delle grandi città non arrivano. Non mi stupirei allora che l’associazionismo gay andasse incontro a una progressiva riduzione di funzioni”.

Davide Bruno è uno psichiatra di 39 anni che in passato ha frequentato l’Arcigay di Milano. “Ci ho messo piede per la prima volta a 22 anni e di fatto era la primissima volta che assumevo pubblicamente questa parte della mia identità. Dal gruppo accoglienza sono passato nel gruppo cultura e nel gruppo coming out, poi mi sono iscritto all’associazione partecipando attivamente alla vita politica e alle elezioni. Dopo qualche anno sono diventato responsabile di un gruppo teatrale indirizzato soprattutto ai giovani”. Bruno ricorda che proprio in quel periodo il CIG era impegnato nell’organizzare serate ricreative note come ‘domeniche al Borgo’ che avrebbero dato maggiore visibilità all’associazione e ottenuto al contempo dei finanziamenti. “All’inizio anche il gruppo teatro ha beneficiato dei fondi, tagliati successivamente in quanto eravamo, secondo il direttivo, poco ‘visibili’, dando l’impressione di essere stati scaricati proprio in un periodo in cui le casse dell’associazione erano piene e servissero a sostenere le attività culturali”. Secondo Davide serpeggiava l’idea che l’associazione assumesse contorni sempre più verticistici e venissero incoraggiate solo le attività gradite al direttivo. Il tutto culminato nell’ammissione alle elezioni dell’Arcigay non solo ai possessori della tessera ‘politica’, ma anche a quelli della ‘Uno Card’ che consentiva l’accesso ai frequentatori dei locali commerciali ricreativi e che magari non avevano mai messo piede al CIG”.

L’allontanamento dall’associazione di Bruno avviene dopo la chiusura del gruppo teatro: ”Era come se si fosse creata una scissione tra l’organizzazione delle serate, che occupavano molto il direttivo e il presidente in prima persona, e il resto delle attività, considerate in qualche modo minori. Tuttavia quel periodo al CIG è stato bello e importante rispetto ai temi identitari, di informazione sulle MTS e per i legami che ha creato con persone che frequento ancora. Non faccio più militanza attiva, ma cerco di trasmettere quel che ho imparato in modo diffuso, nella vita di tutti i giorni. Ora sembra che i luoghi per incontrarsi siano altri, le chat, i social network. Penso invece che le associazioni forniscano una presenza importante sul territorio e siano portatrici di un pensiero meno ‘liquido’, come tale meno colonizzabile da chi detiene il potere. Le unioni civili forse rappresentano quello che da tempo si voleva, forse la fine di alcune battaglie. Credo però che le associazioni LGBT non smetteranno di aver senso finché ci sarà un mondo che stigmatizza la diversità”.

Più tormentata l’esperienza di Maurizio Berardini, architetto e consulente informatico romano di 53 anni; ha una figlia di 25 anni. Inizia la sua militanza nel 2007 presso il circolo Mario Mieli, occupandosi di cultura e organizzando rassegne cinematografiche fino all’inizio dell’anno scorso. Nel 2013 si avvicina a Rete Genitori Rainbow che riunisce “genitori LGBT con figli avuti da precedenti relazioni etero, quindi si rivolge a persone tendenzialmente adulte, con vissuti complessi dietro le spalle”. Per quest’associazione diventa referente per l’area politica “istituzione e movimento” e per le iniziative sociali, entrando poi nell’organizzazione coordinamento Roma pride fino al 2015, realizzando inoltre la rassegna di cinema “Pride People”. “La mia uscita del Mieli è dovuta alla perdita di credibilità dell’associazione, che per avvicendamenti interni e per mancanza di un reale desiderio di condivisione è diventata politicamente poco rilevante.

In quanto piccola realtà associativa, RGR si caratterizza piuttosto per la forte presenza dei suoi soci fondatori, rendendo impossibile una reale autonomia negli incarichi, che procedono sostanzialmente senza delega effettiva”.
Berardini attribuisce il suo disagio a far parte delle due associazioni alla “crescente mancanza di occasioni di confronto con spirito collaborativo, anche a causa dell’elevato livello di rissosità. Ho percepito anche il sovrapporsi di interessi personali a quelli collettivi, una mancanza di lungimiranza e diversi casi di becero opportunismo. Inoltre, il lavoro svolto dai volontari non viene apprezzato abbastanza. Credo che le associazioni arcobaleno italiane siano l’espressione di interessi corporativi e siano troppo frazionate, spesso presidiate da persone di una ignoranza inaccettabile. Peccato, perché sono molte le persone motivate a lavorare e molte quelle da conquistare all’attivismo che si tengono alla larga perché non vengono proposti spazi associativi credibili”.

“Mi sono avvicinato prima di tutto ad Arcigay Milano: era circa il 2005 e frequentavo un ragazzo che faceva parte del gruppo scuola per parlare negli istituti di orientamento sessuale, omo-transfobia e diritti” ricorda Gabriele Strazio, 32 anni, autore insieme a Matteo Winkler “di due libri sui diritti LGBT in Italia e all’estero che penso siano stati di una qualche utilità al dibattito italiano”. Anche Gabriele è entrato nel gruppo e così è cominciata la sua militanza vera e propria, iniziando come semplice volontario fino ad arrivare a partecipare con diversi ruoli alle attività del direttivo milanese.

“Parliamoci chiaro: il disaccordo con i vertici dell’associazione di cui si fa parte non deve sorprendere. Non solo è fisiologico, ma è da considerarsi sano e costruttivo. A me è capitato piuttosto spesso, sia a Milano che a livello nazionale”. Strazio fa un distinguo tra come ha vissuto la militanza locale e quella nel direttivo nazionale durante gli anni della dirigenza Mancuso e Patanè.

“Che durante questi due mandati ci siano state lotte intestine e fazioni che si sono letteralmente fatte le scarpe a vicenda, e che tutto questo subbuglio abbia avuto ripercussioni su pressoché ogni singolo circolo locale d’Italia, credo che sia un segreto di Pulcinella. È stato uno dei periodi in cui gli effetti nefasti della liaison dangereuse dell’associazione con la politica si sono fatti più manifesti. Non voglio dire che un’associazione di qualsiasi tipo, né tantomeno Arcigay, debba astenersi dai rapporti con la politica: solo, questo non può tradursi nella caccia a un posto in parlamento. Dopo l’elezione di Vladimir Luxuria, infatti, non pochi hanno cominciato a scodinzolare pensando fosse arrivato il proprio turno, magari utilizzando Arcigay come volano per un’ipotetica carrierina politica, ma soprattutto trascurando l’attività associativa più quotidiana fatta di volontari che delle beghe partitiche fanno volentieri a meno”.

Per Gabriele anche l’abbandono dell’impegno attivo all’interno di un’associazione è fisiologico, e non necessariamente significa andarsene sbattendo la porta.

“Io mi sono gradualmente fatto da parte in un momento preciso, senza rancori né screzi. Era il periodo della campagna di Affermazione Civile, ideata e promossa coraggiosamente da Rete Lenford e Certi Diritti. Credevo molto soprattutto nelle persone che la stavano portando avanti, tutte ugualmente impegnate in un percorso, quello giudiziario, che in un contesto politico desolante era l’unica strada possibile. Arcigay in tutto questo ha avuto un ruolo timidissimo: mi ci sono allontanato perché sentivo ormai che stavamo su frequenze troppo diverse.

Ora continuo la militanza più privatamente ma non escludo nulla, neppure di tornare a impegnarmi attivamente. Tanto più adesso che il vero faro dev’essere il raggiungimento della piena uguaglianza, ossia il matrimonio egualitario. In più, bisognerebbe tornare a parlare concretamente di una seria legge sull’omo-transfobia”.

Alessandro Martini, project manager di 43 anni, ha frequentato per anni il CIG di Milano come volontario, contribuendo in seguito a fondare l’associazione Harvey Milk e occupandosi sempre di cultura, soprattutto di cinema. “Ma ho fatto per diversi anni anche accoglienza. Ho partecipato spesso alle elezioni e sono stato nei direttivi delle due associazioni”. Anche lui considera normale l’insorgere dei contrasti tra i militanti, che nella sua esperienza si risolvevano “con compromessi che non erano soddisfacenti per nessuna della parti e che generavano poi altri scontri politici e personali”. Come in qualsiasi altro ambiente, anche nelle due associazioni milanesi sono nate consorterie. “La differenza è che essendo coinvolti volontari che prestavano la loro attività a titolo gratuito, spesso le fazioni si personalizzavano anche in modo estremo”. Oltre al dover lavorare in ambienti che diventano poco amichevoli, la gratuità di quel lavoro è pure motivo, secondo Martini, della fine del percorso all’interno delle associazioni, anche di quelle LGBT: “L’impegno è gravoso, dopo un po’ è normale accusare stanchezza”.

Per Alessandro i circoli di provincia sono da prendere come modello: “Sono capaci di ottenere grandi risultati con pochissime risorse perché spinti da una grande motivazione; in quei contesti sono spesso l’unica realtà di aggregazione, perciò tendono a essere più coesi, mentre nelle grosse città c’è più dispersione. Poi, nelle grandi associazioni c’è il pericolo che un unico progetto polarizzi troppo le risorse, come è capitato con le feste in discoteca che assorbono tutte le attenzioni della dirigenza perché fonte di auto-finanziamento, diventando poi il fine ultimo e creando molta frustrazione in chi è interessato a fare altro. Oggi secondo me servono piccoli circoli, magari specializzati in singoli aspetti del mondo LGBT: molti progetti si possono fare con costi contenuti e con poche persone, senza quasi avere una sede. Bisognerebbe lavorare più per progetti anche per riuscire a motivare di più le persone, partendo dal presupposto che i volontari non lo saranno per sempre e che i cicli di ricambio generazionale sono normali, adattandosi così più facilmente al cambiamento”.