C’è uno scontro sotterraneo nella comunità LGBT sulla gestazione per altri, la maternità surrogata o volgarmente “l’utero in affitto”, ovvero la pratica attraverso la quale una donna porta avanti una gravidanza per altre persone etero o gay. È ora di discuterne apertamente.

(prima pubblicazione Pride ottobre 2017)

 

Intervengo sulla GPA (gestazione per altri) nonostante la reputi uno dei tanti falsi problemi in cui i nostri avversari sono riusciti a incastrare il movimento lgbtquaiepqrstuvz per distrarlo da questioni più immediate (per esempio la proibizione dell’inseminazione assistita alle sole coppie lesbiche italiane, ossia un milione e mezzo di donne). La GPA, infatti, riguarda le coppie eterosessuali (le stime che leggo variano dal 70 al 95%) e, solo in piccola misura quelle omosessuali (le stime più generose parlano di “alcune decine” in tutta Italia), dato che è talmente costosa (anche 100/150.000 euro: come un bilocale a Milano) da essere solo per ricchi.

Ma è tipico della politica della sinistra odierna far sì che solo i problemi dei ricchi diventino quelli di tutti, laddove non preoccupa nessuno il fatto che le giovani coppie gay e lesbiche, se anche la GPA fosse liberalizzata domattina, non avrebbero poi un appartamento in cui alloggiare la prole, né un reddito per nutrirla. Quisquilie! Ciò premesso, non intendo sottrarmi al dibattito, in quanto l’argomento pone problemi etici e filosofici di enorme importanza (cosa costituisce un “diritto”? Quando due “diritti” confliggono, quale prevale?) che non possono essere lasciati senza risposta.

Ovviamente dev’essere chiaro che il dibattito non può ignorare i bambini e le famiglie già esistenti grazie a questa procedura, che non è lecito né disprezzare né trattare come inesistenti. Qualunque siano le conclusioni a cui si giungerà non si può pretendere, come ha fatto qualcuno, che le famiglie già create per questa via non siano tali, o che quelli siano “bambini comprati”. Il dubbio etico è nuovo perché nuova è la tecnologia, quindi tutti siamo costrette/i a camminare su un terreno inesplorato, e nessuno/a può essere messo alla berlina per scelte compiute in assenza d’un quadro di riferimento socialmente condiviso e valido.

Nel cercare di farmi un’idea sul tema ho chiesto, a chi di Diritto ne capisce più di me, quale sarebbe il diritto civile che verrebbe leso qualora la GPA non fosse legalizzata. La risposta unanime che ne ho avuto è: “In effetti, nessuno”. Nessuna dichiarazione di diritti stabilisce che procreare è un diritto (semmai, per i reazionari è un dovere!). Non solo perché un 10% della razza umana non è fertile, ma soprattutto perché i bambini non sono diritti, i bambini hanno diritti, esattamente come ne hanno i genitori, dopo la nascita. Sono soggetti, non oggetti, di diritti (ecco perché possono essere sottratti ai genitori che ne abusano, o perché non possono essere oggetti di contratti di “libera” cessione).

Questo è un principio che nel movimento LGBT-ecc. dovrebbe essere familiare, in quanto è in base a esso che i giudici hanno introdotto la stepchild adoption in Italia: infatti veder riconosciuto il legame con entrambe le figure genitoriali è nell’interesse del bambino. Non dell’adulto, non del secondo genitore: del bambino. Ed è questo diritto del bambino a prevalere su tutto il resto. Insomma, purtroppo per chi li desidera e non riesce ad averne i bambini non sono un “diritto”, né la GPA è un rimedio a tale “ingiustizia”.

Specie poi se risolve il problema solo per coloro che possono permettersi di rinunciare a un appartamento: questo, in un paese in cui precariato e disoccupazione, soprattutto nell’età fertile, hanno causato un crollo verticale della natalità, suona a dir poco beffardo. Se davvero ci preoccupassimo del “diritto ad avere figli”, forse non sarebbe esattamente la GPA il punto da cui partire, bensì la politica dei redditi: che ne dite? Eppure la GPA viene propagandata come un diritto, una libertà per la madre che decidesse di prestarsi a questo “dono”. Ma qui siamo nella mistificazione pura e semplice. Primo, nessuna donna sforna figli “per il gusto di farlo”. L’idea che far figli sia una passeggiata di piacere è una tipica fantasia maschile, anzi, maschilista: di parto si può morire. Ma i maschi sostenitori della GPA non se lo “ricordano”, mai.

Secondo, tutti sappiamo che ciò che spinge al “dono” è il compenso economico (se proibito, sottobanco) come dimostra il fatto che nessuno si stupisce mai del fatto che solo le donne povere siano “generose” e che i “doni” beneficino solo le famiglie ricche. Certo, per motivi di pubbliche relazioni, dopo gli scandali passati non si ricorre più a realtà “sputtanate” come il Bangladesh, dove la donna veniva picchiata dal marito fino a che “acconsentiva liberamente”, dopodiché il denaro veniva intascato da lui. Ciononostante le donne che acconsentono in cambio d’un “rimborso delle spese” vengono, stranamente, da realtà geografiche o sociali in cui il “rimborso” costituisce uno stipendio. Se in Ucraina una donna può sperare di guadagnare trecento dollari al mese, già una semplice “mancetta” di cinquemila dollari, che non motiverebbe nessuna donna italiana, è un incentivo allettante. Fingere di non sapere come funziona il mondo, fingere che l’ingiustizia sociale non conti, costituisce non solo ipocrisia, ma addirittura complicità in questo stato di cose. Invece di chiederci come mai esistono donne che stranamente accettano di partorire figli da “donare”, noi cerchiamo di approfittare di tale stranezza.

Terzo, vendere il proprio corpo non è un “diritto” e nessuno di noi possiede la “libertà” di farlo. La legge italiana lo vieta e dichiara nulli eventuali contratti in proposito, ivi compreso un contratto di schiavitù volontaria. In parole povere già ora nessuno “ha il diritto” di vendere un rene, o anche solo il sangue, o di vendersi come schiavo. Certo, è legittimo donare un rene al parente che altrimenti morrebbe di nefrite, ma tale dono è strettamente regolato. E se questi fossero i termini della questione, non ci sarebbe dibattito sulla GPA. Tutti gli oppositori (me incluso) ammettono, infatti, come privo di controindicazioni il caso della giovane inglese a cui era stato tolto l’utero per un tumore, e la cui madre portò avanti la GPA con l’ovulo della figlia e lo spermatozoo del genero.

Se davvero si trattasse solo di “proporre una regolamentazione, non certo il proibizionismo”, come ripetono i sostenitori della GPA, un accordo l’avremmo già trovato da mo’, così come s’è trovato quello sulla donazione di reni. Come militante gay da una vita c’è poi un aspetto della GPA che mi colpisce negativamente: il suo familismo tradizionalista, spacciato come ultima frontiera della rivoluzione, laddove invece fa capo a visioni ultraconservatrici del concetto di “famiglia”. La famiglia dei sostenitori della GPA è infatti quella del Mulino Bianco, con papà-mammà e figlià, ma con un papà al posto di mammà o una mammà al posto di papà.

Quando ero giovane, ai desideri di genitorialità di alcuni di noi s’era iniziato a rispondere in modi vari e talora bizzarri. Conoscevo coppie gay che avevano procreato con coppie lesbiche, o amiche eterosessuali che avevano chiesto all’amico gay d’essere padre della loro figlia, o… Poi arrivò l’AIDS, e fare un figlio con un gay divenne la cosa in assoluto più idiota che una donna potesse fare, e l’esperimento finì. Oggi però la crisi è finita, esistono esami tali da eliminare ogni rischio… ed ecco che il modello di genitorialità che le coppie lesbiche e gay inseguono ora è quella del Mulino Bianco. Dove mi sono perso una puntata?

Qui nessuno è più capace non dico di proporre, ma anche solo d’immaginare tipi di famiglia diversi e nuovi. Non è una proposta: non sono personalmente interessato alla cosa quindi non m’interessa ipotizzarla io. È però una domanda, ossia: come mai nelle parole dei paladini della modernità e del nuovo, che accusano d’oscurantismo chiunque metta in dubbio l’idea che la GPA sia davvero il traguardo del progresso umano, il tema di nuove possibili forme di famiglia è sempre assente?

Non basta. Le mie povere orecchie rivoluzionarie sono state costrette ad ascoltare difese del concetto arcaico e reazionario del “legame di sangue”, per sostenere che se una donna porta in grembo una bimba non concepita con un suo ovulo, costei non è sua figlia, perché l’ovulo non è suo (“non è sangue del suo sangue” avrebbero detto i preti cent’anni fa). Quest’idea secondo cui i legami biologici prevalgono su quelli sociali creò un sacco di danni quando fu discussa la legge sull’adozione (n. 184 del 1983) che, accusavano i suoi oppositori reazionari, consentiva di spezzare quel “legame di sangue” che invece si pretendeva fosse “indissolubile”.

“Genitore è la persona che noi possiamo considerare tale”, ribatterono all’epoca i progressisti, “e non quella che ha il fantomatico legame di sangue, che può essere tradito”. Fu una battaglia fra reazionari e progressisti, che oggi si ripropone, ma a parti inverse: il legame che conta sarebbe ormai quello di sangue, dicono i “progressisti”, mentre il legame umano (e assolutamente nessuno nega che nella gravidanza madre e figlia creino un legame emotivo) non conta nulla.

Daccapo, l’esperienza della stepchild adoption e delle Famiglie Arcobaleno ci insegna che genitore è colei o colui che il bambino vive come tale, non chi ha fisicamente messo l’ovulo o lo spermatozoo. Davvero un contratto che affermi il contrario rottama questo importante principio?

Non entrerò infine nel ginepraio delle contraddizioni legali che crea la GPA. Per citarne una soltanto, la legge sull’aborto garantisce che soltanto la donna possa decidere per tre mesi se tenere l’embrione o no. Quindi, obbligare una donna ad abortire costituisce un reato. Eppure con la GPA sono già arrivati in tribunale casi di donne da cui i committenti avevano preteso l’aborto degli embrioni in eccesso rispetto al numero commissionato, e viceversa casi di donne che avevano cambiato idea e deciso di abortire. Secondo i sostenitori della GPA l’esistenza d’un contratto priva la puerpera dei diritti garantiti per legge! In breve: siamo certi di sapere cosa uscirebbe dal vaso di Pandora della GPA, se lo aprissimo?

Non mi addentro ulteriormente nella questione dato che sul tema ha appena scritto un libro Daniela Danna, Fare un figlio per gli altri è giusto (falso!), Laterza, Bari 2017, € 12. È un riassunto molto leggibile e chiaro delle tesi d’un suo testo ben più ponderoso in lingua inglese (Contract children: questioning surrogacy), che radunava un’ampia casistica di episodi nei quali la GPA aveva già dimostrato aspetti incompatibili con l’aspetto con cui ci viene presentata. Ne raccomando la lettura, visto che sul tema c’è da dire molto più di quanto ci stia in soltanto due pagine.