Il fatto che Pride riuscisse a raggiungere il numero duecento non era scontato, anzi era una sfida.
Quando Pride nacque, in Italia si arrivò a un certo punto ad avere cinque testate nazionali a tematica gay; oggi invece questo mensile è rimasto l’unico presidio della tematica gay nel mondo della carta stampata.
Ovviamente, solo un monaco di clausura può ignorarne il motivo: la rivoluzione informatica ha sconvolto non solo il modo di fare informazione, ma addirittura il concetto di cosa costituisca informazione. Internet, Twitter, i social media, ci hanno abituati a un flusso ininterrotto d’informazioni, un blob che aumenta di volume di anno in anno e scorre sempre più veloce.
Sono stato direttore di questa rivista per oltre dieci anni, e non invidio il compito che è capitato al mio successore, Stefano Bolognini, che vive ogni giorno, ogni mese, la sfida di tenere viva l’ultima fiaccola dell’editoria gay in questo contesto. Di sicuro il lavoro che svolge lui è molto più duro e difficile di quanto non lo fosse venti o anche solo dieci anni fa.
Certo, non è il caso di fare i nostalgici: in effetti noi giornalisti, ormai, siamo i primi a vivere attaccati ai social media, tanto che anche mentre facciamo altro ci interrompiamo per collegarci a intervalli regolari al nostro smartcoso per vedere “cosa sia successo” nelle ultime due ore.
E se capita qualcosa di grave come l’attentato terroristico a Orlando, magari verifichiamo ogni dieci minuti se ci siano novità. È quindi palese che qualsiasi strumento d’informazione che esca con cadenze superiori a quella quotidiana ha ormai senso solo come strumento di riflessione finale, non certo come fornitore di “notizie fresche”, le quali ormai non riescono più a risultare fresche neppure per un quotidiano, figuriamoci per settimanali e mensili.
Tutto era diverso quando iniziai questa professione: dovevo aspettare che le riviste gay straniere (ovviamente su carta) arrivassero per posta e con molta calma in redazione (all’epoca quella di Babilonia), poi le leggevo e ne estraevo le notizie più interessanti, di cui scrivevo per il numero successivo, che restava in edicola per un mese. Quindi a volte occorrevano due se non addirittura tre mesi prima che una notizia fosse diffusa in Italia. Oggi, questo modo di lavorare sembra (a me per primo) l’equivalente dello scrivere la posta su tavolette d’argilla in caratteri cuneiformi e spedirla a dorso d’asino.
Tutta quest’evoluzione è meravigliosa, ed è talmente futuristica che i romanzi di fantascienza di quand’ero bambino non erano neppure riusciti a immaginarsela. Ricordo le previsioni fatte negli anni Sessanta e Settanta, che assicuravano che “nel Duemila” la gente avrebbe potuto leggere il giornale “comodamente a casa propria” grazie a un apparecchio fax che avrebbe…. stampato a domicilio ogni mattina le notizie!
Eppure, dove c’è luce si formano anche ombre.
La Rete ha creato un paradosso: da un lato disintermedia le notizie (non occorre l’intermediazione di un giornalista e di un giornale perché io legga il tweet d’una persona presente a un evento) dall’altro rende disperatamente necessaria l’esistenza d’intermediari capaci di setacciare e filtrare il “rumore di fondo” dell’ingestibile quantità d’informazione.
Man mano che ogni lettore diventa anche produttore di notizie (sette miliardi di produttori di notizie, e una vita sola per leggerle!) è destinato a crescere il bisogno di qualcuno che sappia smistare notizie e commenti degni d’interesse. Con la sparizione dei giornalisti sparisce infatti anche il filtro umano che era pagato per eliminare l’informazione non desiderata, che oggi conosciamo col simpatico nome di “spam”.
Ecco perché il giornale cartaceo, che io non credo sia destinato a sparire anche se penso che in futuro sarà riservato alle sole informazioni giudicate più “preziose”, resta nonostante tutto un argine importante, perché la Rete è la più grande produttrice di spazzatura informativa della storia umana.
Google sta già studiano software in grado di scrivere notizie giornalistiche senza l’intervento umano, traendolo dai tweet e dai social. Proseguendo per questa strada l’informazione del futuro sarà solo o propaganda, o spam, o pubblicità, o chiacchiericcio privo di contenuto; paradossalmente proprio questo riaprirà prospettive a realtà e persone capaci di rielaborare le notizie fornendo loro quel valore aggiunto che è l’interpretazione del significato degli eventi.
Se Pride è riuscito a sopravvivere, ciò si deve senz’altro alla sua capacità di reinventarsi in questo senso, abbandonando il ruolo per cui era nato (quello di fornitore di notizie), per concentrarsi sulla fornitura di commenti e approfondimenti. Questo ruolo, di crescente complessità, è però stato assunto in un momento in cui le risorse per i media tradizionali, in tutto il mondo, sono in costante riduzione. La sfida è quindi decisamente difficile.
Eppure Pride è fin qui riuscito, con tanta fatica e soprattutto con tanti sacrifici di tutti coloro che vi lavorano, a vincerla.
Sorprendendo non solo i “gufi”, ma anche gli amici, per la carica di vitalità che ha saputo ostinatamente dimostrare. Cento di questi anniversari, Pride.