Come se già non ne avessimo abbastanza di disgrazie. Ecco che ora siamo anche sotto assedio dei mass-media per i dilaganti “pasticciacci brutti” di checche assassine scatenate nello sterminare ex-professoresse dopo avergli svuotato il conto in banca. Ne avremmo fatto decisamente a meno, soprattutto in questi tempi travagliati e sotto sforzo per l’approvazione della legge Cirinnà. Il colpo di grazia è seguito all’assassinio feroce del povero Luca Varani, una cosa che ha fatto arretrare l’opinione pubblica sulla “condizione” (come si diceva una volta) omosessuale e forse reso vano almeno un quinquennio di sfilate per l’orgoglio gay in ogni città d’Italia. Con immensa gioia dei soliti opportunisti omofobi come Adinolfi, Giovanardi o l’avvocato Taormina, sciacalli come sempre e soprattutto in ogni dove. Seminando ovunque l’idea che i gay sono tutti assassini, degenerati, pericolosi, malati di mente e “infettivi” verso gli etero, aiutati dalle famigerate lobby gay e dal tentativo d’omologazione Gender. Cose da regressione negli anni ’60 o forse peggio, dove neanche i giornalisti fascisti su Il Borghese osavano tanto all’epoca. Tutti inviperiti a sottolineare che l’ultimo post di Luca Varani sul suo profilo Facebook era proprio contro i matrimoni gay e che probabilmente l’assassino Marco Prato l’aveva scelto e ucciso proprio per quello. Dimenticandosi che se è vero che Varani si recò al massacro su invito di Prato fu proprio in qualità di prostituto da 120 euro, per una prestazione lampantemente “completa”, aprendosi subito un baratro d’incoerenza.

Ma l’Italia si sa, è una repubblica da sempre basata sull’ipocrisia. Tant’è che persino l’altro complice, di nome Manuel Foffo, in carcere è più impegnato a ripetere in loop come una litania che lui è etero, invece che cercare di fare mente locale sul delitto. Benché fosse l’amante e amico di merende di Prato dall’ultimo Capodanno, con tanto di video porno girati a due.

Meglio passare per assassino sadico e tossico che frocio, potremmo dire parafrasando il celebre motto “meglio un figlio fascista che frocio” snocciolato dalla moglie di colui che andava a prostitute minorenni. Poi per ogni gay che fa una cazzata gli omofobi subito scrivono “ma a questi vogliamo affidare i bambini”? Dimenticandosi che elementi come Prato e Foffo sono figli di mammà proprio in famiglie etero modello. Anzi addirittura definite col termine anni ‘70 di “famiglie bene”, che è molto diverso dallo scrivere “per bene”, insistendo a chiappe strette sul ceto e relativo conto in banca.
Infatti, a poche ore dall’arresto dei due strippatissimi criminali, subito il padre di Foffo è andato a impoltronarsi in diretta TV da Bruno Vespa per difendere a spada tratta il figlio, arrogantemente e decisamente fuori luogo nei confronti dei poveri genitori della vittima. Definendolo come un “bravo ragazzo”, a fatica spinto ad ammettere che il figliolo da un anno era senza patente perché alcolista e strafatto di coca era finito a sbattere contro un cassonetto.

E chissà che effetto ha fatto al genitore, pochi giorni dopo, quando ha appreso dai giornali che il figlio Manuel ha dichiarato agli inquirenti che aveva da un bel pezzo il desiderio d’uccidere proprio il padre, perché era troppo arrogante e l’aveva emarginato nelle attività aziendali di famiglia.
Anche Prato, totalmente innamorato del Foffo tanto da travestirsi da donna per lui, gli confessò eccitato l’avversione totale per il proprio padre tanto da fomentarsi a vicenda d’odio e sangue in tre giorni di straordinaria follia. Alla ricerca d’una vittima qualsiasi, prima nella gay street e poi su Grindr, e uccidere “giusto per vedere l’effetto che fa”. Non è più nemmeno una “Strage del Circeo”, con Donatella Colasanti violentata da neo-fascisti drogati e salvata in extremis dentro il cofano di un’auto, con addosso una sua amica morta, nel settembre 1975. Ma in Foffo e Prato non c’è più ideologia politica né odio sessista (al processo i moralisti incolparono le ragazze perché “se l’erano cercata”) ma solo odio egoista, ribellione infantile e tanta presunzione.

Ma risalgo ancora più in là, citando un film di Hitchcock del 1948, ispirato a un fatto realmente accaduto. In cui due studenti cripto-gay, dal quoziente intellettivo straordinario, strangolano con un cappio un proprio amico. Poi lo nascondono dentro una cassapanca allestendoci sopra un party con bibite e stuzzichini per degli amici, intessendo un gioco d’astuzia sadomaso con un loro professore “per vedere che effetto fa” se vengono scoperti. Credendo che l’intelligenza li ponga al di sopra di tutte le regole, anzi di poterne riscriverne i limiti. Ed è ironico che il titolo di questo capolavoro fosse Cocktail per un cadavere, tenendo conto che Marco Prato era proprio un PR da discoteca e organizzava una famosa seratina da aperitivo chic ogni domenica, andata in scena anche con lui in galera.

E ora il massacro di Luca Varani s’è visto “che effetto ha fatto”: incominciato come una fiction irreale di due persone lampantemente malate di mente, condito con tanto narcisismo, è poi deflagrato in una bomba sociologica in pubblico. Pur di sentirsi protagonisti di qualcosa, come negli svariati autoscatti seriali da bel tenebroso selfie-killer di Marco Prato su Facebook. Un profilo totalmente pubblico, come quello della vittima e della sua fidanzata Marta Gaia Sebastiani, cui in questi giorni tutti i media hanno attinto a post e fotografie. Mai come in questo caso s’erano viste tante immagini relative a un criminale e alla sua vittima. Rendendo la cosa ancora più morbosa, come in un reality senza fine.

Ed è proprio questo l’effetto che il delitto fa. Con tutti i danni collaterali del fatto che investono anche noi. Vittima e carnefici non “come noi” ma inseparabilmente con noi.