Nel 350° della nascita del compositore Attilio Ariosti Pride incontra Filippo Mineccia, già affermato controtenore italiano, che con la sua voce sta promuovendo anche all’estero la riscoperta di un’epoca musicale straordinaria, quella dei cantori evirati.

Nell’ultimo trentennio anche l’Italia ha cominciato a dare i natali ai cosiddetti contraltisti o controtenori (cantanti di sesso maschile che modulano la voce nel registro di contralto utilizzando la tecnica del falsetto, non essendo più possibile la pratica messa in atto nel XVI secolo). Tra questi si è fatto notare da qualche anno il fiorentino Filippo Mineccia, che con il CD London – Arias for alto, quest’anno celebra il 350° della nascita del compositore barocco Attilio Ariosti.  Con lui abbiamo cercato di entrare a contatto con un mondo affascinante, quello dell’opera barocca, in cui i cantori evirati costituirono le star indiscusse. Artisti di cui oggi sono musicalmente eredi i controtenori, cantanti che grazie ad anni di studio e allenamento, sono riusciti a riappropriarsi in buona parte delle vocalità in voga in quel tempo. Alessandro Mormile ha scritto un approfondito libro sul tema (Controtenori, ed. Zecchini) in cui afferma: “…così il canto concede oggi all’uomo adulto la possibilità di trasformare la virilità in innocente candore infantile […]; oppure di far propria la grazia femminile – in alcuni casi resa specchio di ambiguità sessuale o di emancipazione omosessuale – per mutarla in delicata e fragile dolcezza interiore, venata di disincantata malinconia”.

Dai timidi accenni per la rinascita di interesse nei confronti del repertorio operistico – soprattutto italiano – del Seicento e del Settecento  sono già passati 50 anni. A che punto siamo?

Oggi siamo decisamente ad un buon punto. Soprattutto all’estero ma anche in Italia l’interesse per il repertorio barocco è abbastanza fervido. Tutte le opere conosciute dei compositori più famosi al grande pubblico come Handel, Vivaldi e Pergolesi sono state riportate alla luce e negli ultimi anni si stanno estendendo le ricerche ai compositori loro coevi  come Vinci, Ariosti, Porpora, Cesti, Cavalli ecc.

Appassionati del barocco e di filologia musicale lamentano la poca coerenza nell’affibbiare spesso alle donne, parti che furono all’epoca dei sopranisti naturali. Come mai questa scelta?

Una precisazione doverosa: nessuno dei ruoli che oggi i controtenori cantano negli allestimenti dei melodrammi barocchi fu scritta originariamente per un controtenore. Queste parti vennero composte inizialmente per castrati, ossia individui di sesso maschile ai quali in età prepuberale veniva effettuata un’ orchiectomia o asportazione dei testicoli. Questo faceva sì che il corpo subisse una crescita assai diversa rispetto a quella di un normale ragazzo che si sviluppa intorno ai 13/14 anni: la cassa toracica si sviluppava in maniera considerevole dotando queste persone di una dose di fiato incredibile, inoltre le corde vocali e la laringe non venivano aggredite dagli ormoni della crescita rimanendo di dimensioni piccole come quelle di un bambino. Si venivano a creare quindi delle vere e proprie “macchine” canore che, se riuscivano a superare le infezioni post operatorie ed il rigidissimo corso di studi che veniva loro imposto nei conservatori, potevano aspirare ad avere una carriera solistica nei teatri d’opera sparsi per l’Italia e le grandi città europee. La castrazione, entrata in voga in Italia verso la fine del ’500 e protrattasi fino agli inizi del secolo scorso, si diffuse a macchia d’olio nella Penisola in pochissimo tempo durante la prima metà del XVII° secolo.

Purtroppo solo un ristrettissimo numero dei bambini ai quali veniva inflitta questa orrenda mutilazione riusciva a raggiungere una carriera onorevole come cantante; la stragrande maggioranza di loro poteva ritenersi fortunata se fosse riuscita ad entrare nel coro di qualche cantoria presso chiese e parrocchie locali.

Il controtenore invece è un uomo che canta nel suo registro di testa o acuto, stoppando la vibrazione piena delle proprie corde vocali facendone vibrare solo la parte anteriore. Non nego che esistessero probabilmente voci di falsetto nell’Europa dei secoli addietro (prima dell’avvento dei castrati in Cappella Sistina le voci acute erano tutte di falsettisti per lo più provenienti dalla Spagna ed il nord Europa vanta una lunga scuola controtenorile), ma posso affermare con ragionevole sicurezza che in praticamente in nessun caso vennero scritti ruoli operistici per voci di controtenore.

I castrati vennero adottati come soluzione migliore al divieto di poter affidare alle donne le voci acute all’interno dei cori durante le messe cantate e le varie funzioni religiose in chiesa. “Mulieres in aecclesiis taceant” scriveva San Paolo (“In Chiesa è meglio che le donne tacciano”) e il concilio di Trento (1545 – 1563) che rivoluzionò la chiesa cattolica, adottò questa sentenza come un dogma.

Nel 1453 Costantinopoli cadde per mano turca e tutta la millenaria cultura greca si riversò in Europa occidentale. A Bisanzio i castrati erano assai conosciuti. Allo stesso modo la Spagna dei califfati conosceva altrettanto bene gli eunuchi e le loro voci. Queste due correnti confluirono a Roma verso la fine del ’500 dando inizio così all’epopea dei castrati nell’Europa occidentale.

Nella prima metà del XVII° secolo il melodramma diventò in breve tempo uno spettacolo pubblico sempre più richiesto ed i castrati cominciarono presto a specializzarsi non solo come cantanti dediti al repertorio sacro, ma diventarono sempre più vere e proprie star, anche perché nello Stato della Chiesa come anche in molte corti Europee alle donne era vietato esibirsi in pubblico.

L’estetica barocca non ha mai posto limiti al piacere di confondere ed il fatto che a quei tempi fosse un castrato ad interpretare un ruolo femminile o che fosse una donna ad interpretarne uno maschile en-travesti non scandalizzava minimamente il pubblico.

Il castrato come figura operistica tramontò infatti alla fine del ’700, quando ormai il pubblico borghese, stanco di dei, semidei e di storie tratte dalla mitologia e dalla storia antica, preferiva sempre di più identificarsi con argomenti che trattassero la vita di tutti i giorni o argomenti storici più attuali. Per questo le voci dei castrati appartenevano nell’immaginario collettivo ad un mondo che non esisteva più e che venne spazzato via dalla Rivoluzione Francese e dalle correnti illuministe (che tra l’altro criticavano la castrazione come crimine abominevole). In seguito le correnti tardo – romantiche del XIX° secolo troncarono nettamente questo gusto per l’ambiguità vocale e, ad eccezione di qualche parte en-travestì (ormai solo femminile), all’interno del melodramma si attuò una rigida divisione dei ruoli, femminili interpretati da donne e maschili interpretati da uomini.

Con la cosiddetta “Baroque renaissance” si è posto il problema a chi affidare i ruoli che un tempo vennero interpretati dai castrati.

Inizialmente si pensò di utilizzare voci maschili gravi. Tuttavia trasferire una parte di soprano o di contralto ad una voce di tenore o baritono risultò un’operazione spesso non felice. Allo stesso tempo molti optarono per affidare le parti di castrato a soprani e mezzosoprani femminili. Ma è qui che il gusto di una gran parte del pubblico di questi ultimi 50 anni si è venuta a scontrare con gli ultimi tre secoli di estetica musicale. Spesso ci si dimentica che dopo il periodo barocco sono avvenuti cambiamenti epocali con le correnti culturali che li hanno caratterizzati (romanticismo, verismo, decadentismo ecc.) con conseguente cambiamento di gusti e tendenze.

Al moderno pubblico che oggi va a teatro con regolarità, o almeno ad una buona parte di esso, disturba vedere una donna che interpreta Giulio Cesare o Orfeo. Per questo motivo l’utilizzo del controtenore in questi ultimi quarant’anni si è posto come alternativa, timbrica ma soprattutto scenica, al solo utilizzo delle donne nell’allestimento di opere e concerti del periodo barocco. Questo però scatena le ire di un’altra buona fetta di pubblico che, disturbato oltremodo nel vedere degli uomini che “cantano come le donne” li bolla come antifilologici e fuori luogo.

Il controtenore “operistico” difatti è il risultato di questi ultimi quarant’anni di società metro -sessuale e di questo ritorno ad un’ambiguità neo-barocca che piace moltissimo ad una parte del pubblico odierno. La donna sta finalmente raggiungendo l’uomo dopo secoli e secoli di soprusi e sottomissioni, mentre dall’altro versante l’uomo si scopre vanitoso e gioca con la propria femminilità. Un uomo che canta con un registro femminile può risultare quindi affascinante o comunque creare interesse.

Tuttavia non sarei onesto se non definissi l’utilizzo odierno della voce di controtenore nell’opera barocca come un clamoroso “falso storico”. È verissimo infatti che al tempo, nel momento in cui non fosse stato presente un evirato, si ricorreva ad una donna o il ruolo veniva destinato ed eventualmente ricomposto per una voce virile grave, mai ad un controtenore. Ed è per questo che una buona fetta di direttori aborre e rifiuta categoricamente l’utilizzo delle voci come la mia a favore invece di una scelta più filologica come quella di utilizzare donne sia per ruoli femminili che per ruoli maschili.

Va anche detto che un’altra valida motivazione a questo tipo di scelta può essere ricercata nel fatto che una buona fetta di controtenori nostrani si è spesso comportata come una brutta copia di soprani o mezzosoprani femminili, svilendo difatti in parte la nostra categoria, e favorendo nell’immaginario collettivo un’idea distorta e non professionale del controtenore.

Molti cantanti (spesso anche gli stessi controtenori) ignorano o sorvolano del tutto il fatto che per avvicinarsi al repertorio barocco bisogna anzitutto essere musicisti, bisogna aver studiato come pazzi e bisogna fare molta ricerca su manoscritti e fonti dell’epoca. Il “fenomeno da baraccone” poteva forse andare bene venti anni fa quando il pubblico e i direttori non erano ancora del tutto abituati. Oggi c’è una maggiore attenzione e questo è un bene, perché viene pretesa una preparazione molto più meticolosa. Tuttavia molti direttori storcono e continueranno a storcere il naso all’idea di lavorare con un controtenore.

Come mai l’Italia, culla di molti compositori  che scrissero arie per i sopranisti, è arrivata solo negli ultimi decenni a dare i natali alla voce dei controtenori e a rinnovare l’interesse verso questo registro di voce?

 Ci sono diversi motivi, tra cui In Italia vi è sempre stata la forte tendenza a cancellare la propria memoria storica. Se si chiedesse oggi a persone per strada cosa sia stato un castrato in passato credo che pochissimi siano al corrente del fatto che in Italia la castrazione umana è stata praticata per più di tre secoli e che per tutto il secolo XIX° e per buona parte del XX°, quando ormai l’epoca dei castrati nell’opera era tramontata, si è continuato praticare questa mutilazione sui bambini con la speranza di farli ammettere nei cori professionali delle chiese (prima fra tutte la Cappella Sistina). Ma è una memoria un po’fastidiosa e si è preferito ometterla. Di conseguenza l’interesse per questo periodo storico, musicalmente parlando, è letteralmente scomparso per moltissimi anni rendendo assai più complicato che altrove la riscoperta di questo repertorio con le voci ad esso correlate.

Da un altro punto di vista, vent’anni di fascismo ed un dopoguerra comunque sia segnato da una società fortemente patriarcale e maschilista trovavano e trovano tutt’ora buffo e ridicolo vedere un uomo che gioca con la propria femminilità o che canta con timbro di falsetto (senza per questo essere necessariamente effeminato).

Nell’Italia dei secoli XVII°-XVIII° il melodramma e la macchina teatrale sotto tutti i suoi aspetti sono sempre stati un fatto prettamente commerciale e non culturale. Si andava all’opera non tanto per ascoltare cantare quanto più per civettare, incontrarsi con gli amici e conoscenti, criticare od applaudire questo o quel virtuoso, mangiare, fare sesso ecc.

Era un avvenimento in cui tutti il popolo vi prendeva parte: i poveri assistevano nelle gallerie o in platea ed i nobili stavano comodamente seduti nei palchi che prendevano in affitto per intere stagioni.

È con Giuseppe Verdi e col melodramma del XIX secolo, impregnato di valori patriottici e romantici, che si attua un cambiamento sostanziale. Nella musica di Verdi si identificò un popolo e si costruì la cultura popolare legata al nostro concetto di Italia non come estensione geografica ma come nazione, per questo motivo oggigiorno chi va a teatro sente più vicino ad un’opera di Verdi, Mascagni o Puccini (anche per vicinanza storica di questo repertorio) piuttosto che ad una di Vivaldi, di Vinci o di Porpora. In sostanza il repertorio barocco non viene preso sul serio in Italia perché è lontano storicamente e non c’è cultura ne volontà di mantenerlo vivo, di conseguenza non c’è quasi lavoro per voci come la mia e io come tanti altri colleghi viviamo e lavoriamo all’estero.

Con riferimento allo scambio di ruoli che avvenivano spesso all’interno di uno stesso dramma teatrale, facendo una battuta potremmo dire che le drag queen esistevano già nell’opera barocca, solo che all’epoca cantavano dal vivo. Come mai oggi questo genere redivivo è principalmente applaudito da una stragrande maggioranza gay? 

 Più che da una maggioranza gay direi da una sempre maggiore fetta di pubblico che sta ampliando giorno dopo giorno i propri orizzonti mentali.

Sicuramente il pubblico gay è un grande fruitore di questo genere, perché da sempre molto interessato alle novità e molto curioso, ma sto osservando un crescente interesse per questo repertorio anche da parte di molte altre categorie, anche lontane dal mondo gay.

Nel nostro paese, in ambito artistico musicale, vige ancora spesso la consuetudine del “non chiedere, non dire”, anche per gli autori e cantanti di musica pop. Il jazz, se vuoi, è ancora più chiuso. Come ti sembra sotto questo punto di vista l’ambiente lirico, tu che non fai segreto della tua omosessualità?

L’ambiente lirico e della musica antica in genere, almeno per quello che ha riguardato me fino a questo momento, è stato totalmente tollerante e aperto. Mi piace il mondo del teatro per questo motivo, perché gli orientamenti sessuali fanno parte della propria sfera privata senza che ne sia fatto segreto, ma quando si è sul palcoscenico la vita privata di ciascuno viene messa in secondo piano e tutti lavoriamo insieme per portare a termine lo spettacolo nel migliore dei modi. Il fatto che ai miei colleghi e colleghe piacciano gli uomini o le donne non deve fare alcuna differenza. L’importante è che ci sia rispetto reciproco e voglia di fare le cose per bene. E credo umilmente che questi principi siano fondamentali in qualsiasi ambito lavorativo.

 Durante la tua carriera, ti è mai capitato di calarti in un personaggio operistico in cui ti sei in parte riconosciuto o che vorresti interpretare e perché?

I ruoli sofferti o malvagi sono quelli che riesco ad interpretare meglio. Adoro il ruolo di San Pietro nella Passione di Antonio Caldara, o il perfido Tolomeo nel Giulio Cesare di Handel sono due esempi ma potrei farne molti altri. Un paio d’anni fa ho dato un recital a Lisbona dedicato al male ed a tutte le figure diaboliche. Il male, sotto tutti i suoi aspetti, è molto affascinante e quando studio un personaggio cattivo cerco sempre di domandarmi come mai sia arrivato ad agire ed a comportarsi in quel modo, mi domando se sia stato sempre una pura essenza malvagia o quali possano essere stati i traumi che lo hanno portato a comportarsi in quel determinato modo. Trovo che questo tipo di ispezione sia interessante anche per provare a capire molte persone che mi circondano e cerco sempre di indagare, ipotizzare, ricercare e non accontentarmi mai dello strato superficiale delle cose e delle persone.

Amerei cantare qualche grande ruolo delle prime opere di Mozart come Farnace nel Mitridate o Ascanio nell’Ascanio in Alba.

Lo scorso anno hai collaborato con altri due famosi controtenori italiani, Antonio Giovannini e Raffaele Pe, calcando insieme le scene dell’opera di Francesco Gasparini, Il Bajazet, uscito anche in cd. Come ti sei ritrovato nel ruolo del perfido tiranno Tamerlano, in contrasto ai panni di Andronico, affidati invece a Giovannini?

Tamerlano è un personaggio tormentato, il ruolo mi è piaciuto fin dalle prime letture perché descriveva un imperatore molto potente e spietato ma capace allo stesso tempo di soffrire per amore di Asteria, figlia del suo rivale Bajazet con grande pathos. È un personaggio che alla fine della storia, dopo la morte di Bajazet, arriva ad un pentimento profondo e preferisce risparmiare la vita di Asteria piuttosto che spargere altro sangue. Il rapporto con i miei colleghi è stato splendido sotto tutti i punti di vista. Dotati di voci molto diverse rispetto alla mia sono stati fonte di divertimento e di crescita personale. Spero di ritrovarli presto per lavorare insieme.

C’è un motivo specifico per il quale le due figure di Tamerlano e Andronico sono state affidate nel libretto originale a due cantori evirati, mentre il ruolo di Bajazet fu affidato ad un tenore?

Il Ruolo di Bajazet fu scritto da Gasparini per il grande tenore Francesco Borosini, vera star dell’epoca mentre le parti di Tamerlano e Andronico vennero affidate rispettivamente all’altrettanto celebre castrato Antonio Bernacchi ed alla contralto donna Diana Vico, celebre per aver interpretato molto spesso ruoli maschili en-travesti. Credo che la ragione per cui i ruoli siano stati affidati in questo modo debba essere ricercata in parte nel registro vocale: il tenore o il baritono si prestavano spesso per interpretare ruoli paterni, monarchi e personaggi malvagi, mentre le voci acute generalmente interpretavano ruoli di amorosi e di guerrieri. Un’altra motivazione può essere ricercata nell’aspetto fisico che questi interpreti avevano. Spesso castrati giovani ricoprivano parti femminili, mentre castrati, baritoni o tenori di stazza imponente erano perfetti per vestire i panni di cattivi, di guerrieri o di amorosi. Un’ultima spiegazione può essere semplicemente cercata nel fatto che i compositori in genere scrivevano i ruoli plasmandoli in base all’offerta di cantanti che avevano per quella determinata stagione.

Com’è nato l’interesse verso il compositore Attilio Ariosti e, di conseguenza la registrazione del tuo nuovo CD?

È un progetto che ho voluto fortemente, a dispetto di molti che mi hanno sempre sconsigliato di affrontare un compositore sconosciuto come lui. Invece, testardo come un ariete, mi sono accostato allo studio delle sue partiture con grande interesse e dedizione, ho cercato molti manoscritti e ho trovato musica bellissima. Inoltre la figura di questo uomo poliedrico, musicista, ambasciatore (probabilmente spia) frate, mi ha intrigato sin dal primo momento. Da ormai sei anni lavoro alla riscoperta di compositori meno noti e ricostruisco le carriere dei più famosi castrati contralti del periodo barocco. È un lavoro che affianco a quello di cantante solista ma che adoro allo stesso modo ed è continua fonte di sorprese e soddisfazioni. Il disco dedicato ad Attilio Ariosti è il mio secondo lavoro solistico e sono molto soddisfatto del risultato; spero che piaccia sia al pubblico esperto sia a quello meno dedito all’ascolto di questo tipo di musica. Mi piacerebbe che questo repertorio tornasse ad essere sempre più eseguito, ascoltato ed apprezzato, anche da un pubblico giovane.

Un tuffo nel passato: il poeta barocco Salvator Rosa definì la musica “arte sol da puttane e da bardasse”, mentre noi consideriamo quella barocca una musica colta, così come ne stimiamo gli interpreti. Ti sei mai fatto un’idea di cosa significasse cantare in un’opera a quell’epoca per i popolani?

 Il teatro del periodo barocco era assai diverso da come lo concepiamo oggi. Non era affatto quel “luogo sacro” dove il pubblico assiste religiosamente in silenzio per tutta la durata della rappresentazione. Il teatro era un passatempo ed un luogo di ritrovo. L’opera che vi veniva rappresentata raramente veniva ascoltata da cima a fondo. I teatri delle città erano qualcosa di estremamente vivo e rumoroso. Probabilmente se oggi un moderno ascoltatore si ritrovasse ad assistere ad un opera di qualche teatro di provincia verso la metà degli anni 30 del ’700 scapperebbe inorridito dal chiasso, dalla puzza e dalle urla dei sostenitori di questo o quel virtuoso. Personalmente non so cosa darei per assistere anche solo per cinque minuti a qualcosa del genere.