Ricordo un brivido gelido e denso che infranse in quell’istante la mia armatura professionale, accapponò la mia pelle militante e finì con lo sciogliersi nel midollo delle mie ossa. Correva il 2013 e marciava a Parigi una delle prime Manif pour Tous, gruppo al quale si sono ispirate le nostre Sentinelle in piedi e che si sta diffondendo anche in Italia. Poco lontano: il retro dell’Hôtel des Invalides; intorno: un prato pieno di gente ben vestita, famiglie, adulti con bandiere, bambini con cartelli scritti da altre mani che le loro.

L’ipocrisia del concetto di “famiglia normale”. Dal palco vociferava l’insostenibile ipocrisia di una descrizione famigliare priva di ogni osservazione critica della realtà, la semplificazione in una sagoma unica del concetto: un papà, una mamma, due bambini che si tengono per mano. Presumibilmente felici. Le teste traboccavano di assunti princìpi, buoni sentimenti, valori precostituiti, privilegi innegabili, ma soprattutto dell’insolente pretesa che quelle menti che stavano là, di quei valori, erano le sole legittime depositarie. Fra quelle teste c’era anche la mia, e dalla consapevolezza di non poter essere dalla stessa parte della barricata di quella folla nacque il brivido gelido e denso.

I valori considerati non condivisibili. Amore, famiglia, filiazione, educazione, patria, laicità e religione, matrimonio, non erano considerati come valori comprensibili e condivisibili fra tutti gli esseri umani e quindi potenzialmente attribuibili dalla legge anche a quelle famiglie che con amore, e nella loro differenza, avessero già intrapreso – senza aspettare autorizzazioni, riconoscimenti, certificati legali, attestati – a trasmetterli. Quei valori, nel comune sentire in quel luogo, erano una proprietà privata dei partecipanti alla manifestazione o poco più. E non potevano correre il rischio dell’annacquamento rappresentato dall’estensione del loro senso. L’idea era che bisognava tornare indietro. Che non si poteva fare un passo di più.

Una battaglia da perdere. A ripensarci oggi è come se la Manif pour Tous avesse saputo che c’era una battaglia da perdere e ci si fosse buttata a capofitto. Manifestanti autolesionisti? Non tutti. Omofobi? Non solo. Retrogradi conservatori dei valori familistici del secolo scorso e di quelli veicolati da millenni dalla religione? Molti. Laici ignari dell’esser cresciuti nel bagno del “catto-laicesimo” alla francese? Numerosi. Opportunisti? Alcuni. Prima fra tutte l’ispiratrice della manifestazione che per l’occasione aveva addirittura scelto uno pseudonimo di battaglia: Frigide Barjot, al secolo Virginie Merle, sposa Tellenne, scaricata in malo modo, dopo mesi di volgata ai limiti dell’omofobia. Quando il movimento ha avuto presa sull’elettorato cattolico più estremista la comica – è la sua vera professione – non bastava più. Serviva personale diverso al comando.

Fuori la comica, dentro i duri. Diverse inchieste giornalistiche, in particolare una del quotidiano online Mediapart, hanno tratteggiato le frontiere del praticello dell’intolleranza al matrimonio per tutti: cattolici integralisti, estrema destra, gruppuscoli nazionalisti, sostenitori di Petain (il maresciallo) fra i quali elementi inclini al saluto a mano tesa, movimenti monarchici, anti-democratici. Printemps français, Fronte Nazionale, Gud (gruppo unione difesa), Civitas, Opus Dei, la pasionaria della famiglia e antiabortista Christine Boutin, sposata con il cugino su dispensa vaticana… fra tutti anche i recuperatori del movimento, la destra UMP che aveva permesso l’elezione a presidente di Nicolas Sarkozy. L’elenco rimanga incompleto.

L’esportazione. Questo è il perimetro ideologico della Manif pour Tous che oggi si esporta in molti paesi europei. Non esistendo una legge sull’omofobia, in Italia i manifestanti potranno decidere personalmente di rigettare la definizione di “omofobi” ma appariranno a ogni timido passo avanti del progetto di legge sulle unioni omosessuali. A volte doppiati dalle Sentinelle in piedi.

Chi trasmette omofobia causa violenza. I rappresentanti della Manif pour Tous confondevano già a Parigi nel 2013, l’uguaglianza di ciascuno con i privilegi di qualcuno, infangavano già il concetto di “libertà di opinione” con le loro insinuazioni omofobe da casellario dei “delitti”. Pretendevano già allora di poter continuare a dire tutto il male che pensano della vita privata di altri, fingendo incoscienza quando era loro rimproverato che le parole discriminanti, fertilizzano il terreno della violenza, la stessa che ha massacrato Pasolini, che ha colpito Wilfred de Bruijn, quella che attacca ogni vittima di bullismo omofobo.

La miscela dell’odio. Affossatori del concetto di gender, contrari all’aborto, irredimibili sulla GPA (gestazione per altri) – pretendono in questo caso di difendere i diritti di bambini, fingendo di non accorgersi che espongono al pericolo di rappresaglie i figli di unioni non convenzionali già esistenti – inseriscono in una sola confusione l’unione d’amore fra due persone e la bioetica finendo il discorso con mercato del corpo, eugenismo e così via.

Con quali armi si combattono? Le contro-manifestazioni stesso giorno/stessa ora su percorsi diversi, hanno funzionato. Frequentatissimi i Kiss In sotto lo slogan “Il nostro amore è più grande del loro odio”. Il movimento mondiale All Out raccolse 243.000 firme in favore dell’uguaglianza e fondi per campagne stampa. Furono creati diversi hashtag e fu la gara sulle reti sociali a chi per primo beccava l’omofobo di turno. Durante le manifestazioni venne stigmatizzato l’integralismo che sorge dal modello famigliare del secolo XX. Alcuni militanti per il matrimonio per tutti, dopo il passaggio della Manif pour tous, pulivano le strade dai volantini, bandiere, palloni e adesivi.