“Esiste un diritto alla privacy, ma non un diritto all’ipocrisia.” – Barney Frank, membro del Congresso degli Usa.

Fare outing consiste nel rivelare ai media l’omosessualità di personaggi pubblici non dichiarati che sostengono posizioni omofobe. Queste operazioni sono piuttosto frequenti all’estero, e accendono sempre molte discussioni.

A dicembre, il settimanale francese Closer, lo stesso che rivelò la relazione clandestina tra François Hollande e Julie Gayet, ha fatto outing a Florian Philippot, il vicepresidente del Front National, partito politico di estrema destra, pubblicando alcune foto inequivocabili che lo ritraevano con il compagno. Ovviamente nessuno sapeva dell’omosessualità del politico, che milita in un partito fortemente anti-gay. Un caso di outing “di massa” ha invece riguardato gli Stati Uniti. Nel 2009, il documentario Outrage ha denunciato l’ipocrisia di molti politici conservatori, omofobi e al contempo frequentatori di prostituti.

Questi sono solo due tra gli esempi di una pratica molto diffusa all’estero. L’Italia fa eccezione: nel nostro Paese l’outing non esiste o, peggio, viene al massimo usato dalla stampa di destra per neutralizzare avversari politici. Perché allora in Italia è ancora difficile fare outing?

I motivi sono diversi. In un Paese dove sono ancora pochi i gay dichiarati, è complicato fare inchieste. Come intervistare l’ex fidanzato di un politico, se lui stesso è “velato” infatti? Chi parla, poi, a volte fa una brutta fine. Nel 2009 Piero Marrazzo ha subito un outing e si è dimesso dalla carica di presidente della regione Lazio, ed entrambe le transessuali che frequentava sono morte in circostanze ancora poco chiare. Ma il motivo principale del congelamento degli outing in Italia è da cercare nella legge. Il direttore di un giornale che dovesse pubblicare nomi di personaggi pubblici omosessuali e omofobi, con una documentazione inattaccabile, rischierebbe una onerosa causa per diffamazione.

Non stupisce allora, che i casi di outing italiano siano nati per ben altri motivi. Nel 2009 Il Giornale di Vittorio Feltri ha diffuso la notizia della presunta omosessualità di Dino Boffo, direttore del quotidiano cattolico Avvenire e feroce critico di Berlusconi, provocandone le immediate dimissioni. I casi di Boffo e Marrazzo non hanno nulla a che fare con le loro posizioni sui diritti lgbt: erano personaggi che si opponevano con forza alla destra italiana, e il loro outing serviva a neutralizzarli politicamente.
Anche il movimento gay non sembra amare l’outing. Nel 2011 Aurelio Mancuso, ex presidente di Arcigay, annunciava la pubblicazione dei nomi di politici gay che si opponevano  alla legge contro l’omofobia. Dopo settimane di suspense e comunicati stampa, il passo indietro. Un sito internet pubblica però dieci nomi di presunti gay.

L’elenco non è corredato da alcuna foto, registrazione o intervista. Neanche l’ombra di una prova e nessuna conseguenza, meno che mai per le istanze del movimento.
In Italia, quindi, l’outing resta un’arma che il movimento non ha mai saputo usare, ma che i partiti politici (e soprattutto le destre) sono bravissimi a sfruttare quando fa loro comodo. Lo stesso movimento è diviso sulla questione. Per alcuni l’outing è inutile: la politica è sempre felice di chiudere gli occhi su certe discrepanze, come nel caso dei politici cattolici ma divorziati.

Ma vi sono altre ragioni. All’indomani dell’inutile operazione di Mancuso (che comunque gli ha offerto qualche visibilità), Arcigay definisce l’outing “un’operazione di estrema violenza, del tutto estranea alla nostra storia, cultura e orizzonte politico”. Si riconosce che ormai l’outing è parte di una strategia basata sul sensazionalismo, giocata sullo scandalo, insomma in Italia l’outing è diventato un ingranaggio della “macchina del fango”. Rimane però da chiedersi se, per quanto discutibile, non rappresenti a volte una scelta utile o necessaria.

L’outing è una fallacia, un argomentum ad personam: attaccare un individuo omofobo non serve a smontare il contenuto delle sue affermazioni. Se però si analizza il contenuto delle dichiarazioni omofobe, si scopre che molto spesso sono loro i primi a non confutare la tesi della parità dei diritti, quanto piuttosto a prendere di mira un fantomatico “stile di vita” di tutte le persone omosessuali (“Sono tutti promiscui”, “Amano svestirsi durante i pride”, “Sono disgustosi quando li vediamo in giro mano nella mano”). Questo non ha nulla a che fare con una discussione sui diritti.

Conosciamo le motivazioni in base alle quali politici e clericali si oppongono ai diritti lgbt: i diritti non vanno concessi perché l’istituzione della famiglia imploderebbe, o perché i gay sono tutti nudi al pride. Ovviamente, non c’è nulla di razionale in queste argomentazioni, nulla cui controbattere con un senso logico. Si può affermare che siano gli omofobi ad aver scelto il “campo di battaglia” dell’irrazionalità.

Se si sceglie di non rispondere, si perde la battaglia. E questo in fondo lo sappiamo tutti. Ogni volta che parliamo dei suicidi di adolescenti gay, o che opponiamo la storia di una famiglia arcobaleno a tante storie di famiglie eterosessuali e disfunzionali, o che parliamo di gay uccisi in paesi intolleranti, facciamo appello alle emozioni del nostro interlocutore. E questo perché, nel dibattito pubblico, le emozioni giocano un ruolo importante tanto quanto la razionalità.

Il movimento ha regalato l’outing alla politica e alla destra, ma farlo per le richieste civili e farlo per giochi di partito non è la stessa cosa. L’outing è chiedere coerenza a personaggi che sull’attaccarci hanno costruito carriere, capitali e soprattutto leggi. Perché non riappropriarsi di questo strumento?