Due anni fa, nel 2013, quando Sacro GRA, diretto da Gianfranco Rosi, vinse il Leone d’oro furono in molti a storcere il naso, ritenendo che un documentario non fosse degno di vincere un festival celebrato come quello di Venezia. Un luogo comune, in voga già da molti decenni, vuole infatti che esso sia un prodotto inferiore al cinema di finzione. D’altra parte ormai è così: nonostante non di rado presentino evidenti qualità filmiche, i documentari il più delle volte rivestono nei festival un’importanza relativa, richiamando solo un pubblico circoscritto. Sono dunque lontanissimi i momenti in cui documentaristi eccezionali, come lo statunitense Flaherty o l’olandese Ivens, furono osannati, mietendo successi dopo successi in ogni tipo di festival.
Comunque sia, il documentario vanta invece un’importanza eccezionale nell’universo gay. Da quando, in particolare dagli anni Settanta in poi, la cultura lgbt ha iniziato a ricostruire, tassello dopo tassello, il proprio passato, identificando i personaggi e le opere fondamentali e svelando finalmente tante cose che la cultura ufficiale aveva negato o taciuto, in campo cinematografico sono stati sicuramente i documentari a offrire i risultati più efficaci. Al riguardo, ad esempio, si può dire che Before Stonewall (Greta Schiller, 1999) sia stato ben più decisivo del pur valido film di Nigel Finch, Stonewall (1995). Come se non bastasse, essi si rivelano dei mezzi insostituibili per fare il punto su come venga vissuta l’omosessualità nel mondo, cosa che il cinema di finzione riesce a fare solo raramente in maniera positiva, optando il più delle volte per versioni troppo romanzate.
In Italia, parlando in linea generale, il livello dei documentari alla fine è superiore a quello di cinema di finzione. Ciò nonostante, raramente assistiamo a risultati eccezionali. Sul piano quantitativo la produzione non è certo cospicua, così nei festival specializzati non è frequente vederli, e i risultati raramente sono molto convincenti. Ragion per cui non ci si può lamentare se alcuni di essi (già presi in considerazione sulle pagine di Pride) sono riusciti comunque a raggiungere gli schermi, come Ma la Spagna non era cattolica? (Peter Marcias, 2007), Improvvisamente l’inverno scorso (Gustav Hofer e Luca Ragazzi, 2008), L’amore e basta (Stefano Consiglio, 2009) e Felice chi è diverso (Gianni Amelio, 2014). Un caso a sé è Angels on Death Row, The Ebrahim Hamidi’s Case (Alessandro Golinelli e Rocco Bernini, 2011), uno dei pochi doc italiani che ha avuto il coraggio di allargare il discorso su un altro paese, in questo caso l’Iran, mettendo a fuoco le storie dei tanti gay, anche minorenni, condannati a morte da un governo repressivo e disumano.
Rimane il fatto che, come in tanti altri casi, i prodotti migliori sembrano essere quelli televisivi come A qualcuno piace gay (Anton Giulio Onofri, 2001), un disinvolto excursus sulla figura dell’omosessuale nel cinema italiano, e soprattutto l’eccellente puntata “La questione omosessuale” della seconda stagione di Storia proibita del ‘900 italiano di History Channel (Davide Savelli, 2007). Con un taglio e un montaggio intelligente, arricchiti da sorprendenti materiali di repertorio, testimonianze inedite e interviste a esperti del settore, la puntata racconta come sia stata vissuta l’omosessualità in Italia dall’inizio del Novecento fino agli anni Settanta, attraverso i suoi snodi fondamentali, come la fondazione del FUORI, e i personaggi più importanti, da Pasolini a Giò Stajano, da Dominot a Aldo Braibanti, l’unico italiano condannato per il reato di “plagio”.
Certo, ci sono molti bei documentari (tra i tanti ricordo Isola nuda, di Debora Inguglia, 2008, sugli omosessuali siciliani inviati al confino in epoca fascista), ma è altrettanto vero che troppi sono imperniati su biografie di personaggi più o meno noti o su situazioni già viste e riviste, come i femminielli napoletani. Il fatto è che, bisogna dire la verità, tanti doc sembrano creati con lo stampo: una sfilza di interviste (talora banalotte e un po’ noiose), senza immagini di repertorio e con un montaggio minimale e poco creativo.
L’interesse gioca così tutto sui contenuti proposti e non certo sul piano espressivo. È questo il caso anche di due doc italiani recenti, che pure meritano simpatia. Il primo è Non so perché ti odio – Tentata indagine sull’omofobia e i suoi motivi, diretto da Filippo Soldi e mostrato con successo all’ultimo Festival di Roma, che fa il punto della situazione sugli ultimi, numerosi casi di omofobia, cercando di evidenziare perché e in che misura l’omosessualità rimanga un pregiudizio nell’immaginario collettivo di tanti. In un’intervista, il regista ha chiarito con lucidità la propria posizione: “È solo un motivo di carattere economico e di controllo sociale. Con le religioni politeistiche era diverso, non c’era questa condanna. Il fatto è che l’erotismo fra persone dello stesso sesso non è economico. È un eros improduttivo, non si crea nessun nuovo soldato, nessun nuovo operaio. Certo nell’odio c’è anche il tentativo di negare la propria componente omosessuale. Insomma, non ci sono due visioni contrapposte, ma entrambe convivono allo stesso tempo”. Posizione interessante e per molti versi condivisibile, ma che però non viene fuori a chiare lettere nel pur interessante filmato.
In appena 30 minuti, Soldi esamina la delicata situazione italiana, ricostruendo i casi più eclatanti di prevaricazioni, prepotenze e aggressioni che tanti gay sono quotidianamente costretti a subire, a Roma così come in altre città. Tra di essi, la più eclatante è quello un giovane costretto ad andare 22 volte al pronto soccorso, per insulti e aggressioni da parte di compagni a scuola. Un altro discorso è quello di omosessuali uccisi, ricostruiti anche attraverso le parole dei condannati stessi, oppure di quelli che di sono suicidati, come Andrea Spezzacatena, il “ragazzo dai pantaloni rosa”, un caso molto trattato dalla stampa italiana.
I momenti più interessanti però sono paradossalmente le interviste a personaggi legati a farneticanti movimenti che avversano ogni tentativo di modernizzare la società: “Giuristi per la Vita”, “La Manif pour Tous – Italia”, “Forza Nuova” e le “Sentinelle in piedi”. Tutti movimenti ultraconservatori, che lottano contro il disegno di legge Scalfarotto così come contro ogni tipo di legalizzazione di unioni omosessuali, arrivando addirittura a sostenere che bisognerebbe parlare più di “un’eterofobia” che di un’omofobia. Testimonianze che, pur rozze e grossolane, sono quanto mai utili per tastare il polso a una nazione che, quantunque ormai sicuramente proiettata verso approdi più democratici, conserva irrimediabilmente in sé fortissime scorie.
Lei disse sì, un documentario diretto da Maria Pecchioli uscito in sala lo scorso ottobre, è semplice ma sincero e coinvolgente, scandito a ritmo di musica. È la storia di Ingrid e Lorenza che coronano la loro storia d’amore, vecchia di sette anni, sposandosi in Svezia, visto che in Italia non è possibile. Il sottotitolo, La rivoluzione a colpi di bouquets è appena cominciata, vuole evidenziare la trasgressività di una matrimonio dal forte significato politico, che rivendica l’uguaglianza e che quindi – nonostante il carattere borghese del rito matrimoniale in sé – assume in questo caso un valore quasi rivoluzionario. Il film, che nasce come costola di un blog seguitissimo delle due protagoniste (www.leidissesi.net), è sostanzialmente un diario in cui si ricorda il fortissimo sentimento che le lega. Ma la cosa che più rimane impressa è l’entourage di persone, fra cui la stessa regista, che hanno contribuito al matrimonio e, con un crowdfunding, di realizzare il documentario: una comunità, quasi una grande famiglia, di affettuosi testimoni di un sogno che finalmente si realizza.
Il livello dei documentari di altre nazioni, spesso presenti nei nostri festival, appare mediamente superiore, grazie innanzitutto alle proprie qualità: fotografie molto curate, un ritmo intenso, contributi storici originali, l’entusiasmo di raccontare attraverso testimonianze di grande forza comunicativa. Essi propongono, anche con angolature molto originali, i più svariati argomenti, quali gli eunuchi, le/i trans, la prostituzione o anche il cinema pornografico (al riguardo, il documentario I’m a Porn Star – Gay Documentary, www.vimeo.com/ondemand/imapornstar/81234832, è eccellente per capire come funzioni il mondo delle star dei porno gay, dal discorso economico a ciò che realmente avviene sui set cinematografici, ricordando le bizzarre, ma anche gratificanti, storie di tanti ragazzi che si sono dati a questo particolare genere).
Quelli più interessanti sono però quelli che ci fanno capire meglio la realtà omosessuale di altri paesi, in particolare quelli dove essa è condannata; spesso girati di nascosto e con mezzi di fortuna, nonostante le riprese spesso grezze, hanno un valore enorme. Ricordo ad esempio quelli sui paesi islamici (il più significativo sull’argomento rimane A Jihad for Love, Parvez Sharma, 2007) o l’Uganda (Call Me Kuchu, Katherine Fairfax Wright, 2012). È per esempio proprio dai documentari che, meglio di ogni altro mezzo, possiamo capire efficacemente cosa stia accadendo nella Russia attuale di Putin; qui la comunità locale lgbt sta subendo una tremenda repressione, che paga con selvagge aggressioni o con il carcere, come ricordano Campaign of Hate: Russia and Gay Propaganda (Michael Lucas, alias Lucas Kazan), mostrato al ToGay 2014, o Olya’s Love (Kirrill Sakharnov, 2014) che, finanziato con un crowdfunding, narra la storia di una coppia lesbica russa, Olya e Galiya, e di conseguenza la feroce discriminazione in atto in quel paese. A ricordarci come in Russia ora l’omosessualità sia un argomento tabù, di cui è vietato parlarne quasi a voler far credere che non esista per niente, c’è poi Children 404 (Askold Kurov e Pavel Loparev, 2014) che si chiama così rifacendosi al codice che appare quando una pagina di un sito Internet non viene trovata, nel quale molti ragazzi ricordano le violenze subite e il terrore di vivere in un paese così.
I documentari dunque, fonti inesauribili che meritano tantissima attenzione, stanno anche cercando nuove strade, a volte molto interessanti, anche con prodotti creati esclusivamente per il web. È il caso dei docufilm oppure dei documentari che mischiano intelligentemente la realtà e la finzione, utilizzando anche attori, come Adopción di David Lipszyck (2010), che tocca un argomento delicato, come l’adozione, nell’Argentina tenuta in scacco dalla dittatura militare, oppure il vincitore del ToGay 2014: lo svizzero Der Kreis (Stefan Haupt) che ha vinto il premio come migliore lungometraggio (ma per un terzo è documentario), che racconta Der Kreis (Il Cerchio), un circolo di liberazione gay degli anni Cinquanta di Zurigo, che dette vita anche a una rivista beefcake, e nello stesso tempo l’amore intenso fra l’insegnante Ernst e la drag queen Röbi, pionieri dell’emancipazione gay, sposatisi nel 2003.