Quanto è mercificato in Italia il corpo maschile?
A giudicare dai pettorali e dalle natiche virili che affollano sempre più le pubblicità di moda e profumi, sembra che nella comunicazione di massa qualcosa stia cambiando anche nel nostro paese, come del resto succede da anni nel resto del mondo occidentale.
Forse allora è utile capire se il cambiamento può considerarsi virtuoso o se invece vale l’avvertimento lanciato nel 2010 da Giovanna Cosenza, docente in Semiotica all’università di Bologna e pioniera nel campo dei gender studies proprio sul tema del corpo maschile, quando dalle pagine della rivista Alfabeta 2 scriveva che “rappresentare gli esseri umani […] come corpi belli ma privi di pensieri, emozioni, storie individuali […] comporta un grado troppo alto di svalutazione della complessità e varietà umana per non dovercene preoccupare”.
Interpellata per darci qualche strumento analitico in più, Cosenza ritiene utile fare qualche esempio pratico. Se guardiamo un celebre scatto della campagna pubblicitaria per gli occhiali Ray-Ban, “Never Hide” (“mai nascondersi”) curata dal fotografo americano Mark Seliger, quella che nei mesi scorsi dominava le affissioni delle nostre città oltre che le pagine di svariati giornali e riviste, vediamo un giovanotto muscoloso tutto nudo, liscio e depilato, troneggiare spavaldo su una pedana al centro di una stanza, gambe aperte e braccia a triangolo sui fianchi: è il modello per un gruppo di giovani artisti di un qualche corso di disegno dal vero. Proprio nudo non è, quando notiamo che indossa un paio di occhiali da sole sopra un sorrisetto beffardo e un po’ ebete. E che dire del fatto che l’insegnante di disegno lo impalla con una mano proprio “lì”?
“In questo caso al corpo maschile è concessa la presa di distanza dell’ironia”, annota Cosenza, “perché lo si presume etero, in quanto ammirato dalle donne che lo stanno ritraendo”. L’immagine scelta da Ray-Ban sembra osare una piccola variazione sui canoni molto rigidi di maschio proposti dalla pubblicità italiana; quello chiamato da Cosenza “l’uomo bello e impossibile” ci dice peraltro quanta influenza sulla comunicazione generalista eserciti l’immaginario tipico della sottocultura gay. L’esempio più calzante in questa direzione è David Gandy, aitante testimonial per Dolce&Gabbana fin dal 2007 e ormai inscindible dal brand. Lo ricordiamo nel celebre spot ambientato a Capri dove il nostro emerge flessuoso dalle acque attorno ai faraglioni per andare ad abbracciare un’algida bionda che lo aspetta su una barca. “Gandy è certamente un’icona gay, ma è tutto il marketing degli stilisti milanesi a essere influenzato da quel tipo di retaggio visivo. In realtà il messaggio ha tre obiettivi. Ai maschi etero suggerisce vi piacerebbe essere come me? Ai gay, invece, vi piacerebbe anche avermi? E ci cascano le donne etero, perché uno come Gandy è certamente attraente e appetibile. Ma è tutta illusione, peraltro auto-dichiarata: non a caso lo spot di cui sopra finisce con un ciak che svela una finzione troppo bella per essere vera, comunque rivolta principalmente al pubblico omosessuale”.
Questa tipologia di maschio irreale, allusivamente gay ma votata alla commerciabilità più ampia, secondo Cosenza si sta diffondendo sempre di più. Siamo però lontani dalla totale parità di trattamento col corpo femminile: “Negli ultimi dieci–quindici anni registriamo una tendenza progressiva alla rappresentazione del corpo maschile con gli stessi canoni di estetizzazione, omologazione e astrazione usati per il corpo femminile. Queste regole estetiche sono dettate dalle multinazionali della cosmesi e della moda e il processo è irreversibile, per cui mi aspetto che a breve arriveremo a lamentarci del fenomeno e a esserne infastiditi: ne denunceremo gli eccessi esattamente come è successo per il corpo femminile, che pure è questione emersa solo di recente. Non è ancora però un tema caldo: quando agli editori propongo un libro che affronti il problema mi sento rispondere che per loro il problema non c’è e che interessa per lo più la cerchia ristretta della cultura gay; non hanno tutti i torti”, ammette la professoressa Cosenza, che lamenta per giunta la stretta compartimentazione della ricerca universitaria del nostro paese, alla quale appare bizzarro che a occuparsi di questi argomenti sia una donna etero.
Tutta questa equivalenza tra corpi di uomini e donne in comunicazione, quindi, è più apparente che reale, e l’uso di qualche maschio svestito non rappresenta una grande evoluzione del costume. “Si tratta piuttosto di una versione aggiornata e adeguata ai mass media italiani della statuaria greca, che tutti hanno visto sui libri di scuola. L’unica differenza rispetto a vent’anni fa è che prima i generi rappresentati erano solo due: maschio e femmina etero. Oggi ci possiamo permettere in più il maschio gay, ma solo se rientra nei limiti dello stereotipo e del cliché. Per questo sono convinta che le battaglie del movimento femminista siano parenti strette di quelle del movimento gay: se fai la prova di commutazione e sostituisci un maschio al ruolo solitamente impersonato dalle donne in pubblicità, introduci in automatico il target gay messo in caricatura”.
La via italiana all’iconografia maschile gay per il grande pubblico sembra perciò non poter fare a meno di un certo grado di ipocrisia, e questo è confermato dal fatto che l’unica rivista gay possibile in edicola è quella che non si dichiara come tale, ovvero Vanity Fair e le sue copertine ammiccanti, mentre in televisione impazza il modello del cantante-gay-non-dichiarato per le ragazzine urlanti di Amici di Maria De Filippi.
“La tv generalista del nostro paese propone cose tipo Padre Natura nelle trasmissioni di Bonolis, oppure i famigerati Velini maschi di Striscia la Notizia, che ritengo una furba ma tardiva provocazione da parte di Antonio Ricci in risposta a Il corpo delle donne, documentario curato da Rossella Zanardo che analizza il trattamento di spersonalizzazione dell’immagine femminile in tv”, osserva Cosenza. “Se ci pensiamo, già la Carrà, nota icona gay, fin dal 1998 aveva osato di più circondandosi dei suoi quaranta Carramba Boys. In un certo senso è come se l’immaginario fosse tornato indietro, o che si sia impantanato: ci sono ancora forti resistenze culturali di ascendenza catto-comunista che impediscono all’Italia di far evolvere i costumi come negli altri paesi europei”.
E le questioni apparentemente superficiali che riguardano la comunicazione si ripercuotono anche nella sostanza dei diritti, perché, continua Cosenza, “le persone che vedono in tv Padre Natura sono rassicurate dal fatto che la questione gay non li riguardi da vicino. Non parlo di pochi fanatici omofobi, ma della massa silenziosa che in fondo è turbata dal corpo di un maschio nudo; parlo del perbenismo di chi non si pronuncia ma in realtà nasconde intolleranza, quelli che ‘una coppia gay con un bambino non si può, povero bambino!’”.
E il mondo della pubblicità sembra registrare questo disagio, travestendolo da provocazione come “negli spot della Findus, che mostrano dei coming out ma tagliano i volti di chi li fa: c’è molta differenza tra oscurare il viso di un etero e quello di un gay; questa è un’operazione consapevole di mutilazione”.
Il nostro collaboratore Paolo Rumi, copywriter senior e direttore creativo, condivide con la professoressa Cosenza una scarsa opinione del panorama pubblicitario italiano: “Vorrei proprio che ci fosse una campagna di comunicazione che infastidisse o facesse pensare, ma la pubblicità è diventata negli ultimi quindici anni ancora peggio dei media che la ospitano. Forse perché a capo del governo c’è stato un proprietario di media che lavorava sul no risk e come massima trasgressione trattava le donne come prosciutti o come immaginette. Certo non è trasgressiva la campagna Ray-Ban, patetica e incomprensibile. L’approccio è ben diverso dal quello per il nudo femminile: avercene, di uomini nudi e cazzi in vista! ‘Never Hide’: e poi sono loro i primi ad andare di fotoritocco per eliminare il membro virile. È solo un espediente per attirare attenzione. A proposito di nudo integrale, Lucas Kazan, regista e produttore di film hard gay che vive negli Usa, non è d’accordo sull’impostazione della nostra indagine: “Il termine mercificazione esprime un giudizio, io preferisco un sostantivo come visibilità. Non credo che oggi ci sia più visibilità, al contrario: il corpo maschile è entrato e uscito di scena, a seconda delle mode, dei linguaggi, delle culture. Penso alla scultura fascista, all’arte rinascimentale e barocca, o a quella greco-romana: i glutei dei bronzi di Riace mi paiono più tondi ed erotici dei disegni di Tom of Finland. Secondo me non è cambiato il ruolo del nudo maschile al cinema, nelle campagne pubblicitarie di Versace, Calvin Klein e Abercrombie and Fitch. Noto invece una sovraesposizione in tv nei serial come True Blood e i reality come Naked Dating o Il Grande Fratello. Attenzione: non si tratta di uno sdoganamento dell’immaginario omoerotico. Non a caso, l’Italia rimane al primo posto in Europa per omofobia e pregiudizi. Cinema, moda e tv fotografano solo il narcisismo del maschio contemporaneo e ne forgiano sogni, bisogni e modelli di comportamento”.
“Che si arrivi a mercificare il corpo maschile dopo che per lustri lo si è fatto con quello femminile credo sia un punto di arrivo inevitabile, vista la capacità di fagocitare tutto che ha il capitalismo”, commenta il filosofo Gianni Vattimo. “Quantomeno è sintomo del raggiungimento di una certa parità tra i sessi e la presa del potere da parte di un numero sempre maggiore di donne. Non che sia di per sé un fatto positivo: dare l’automobile a tutti quelli che la desiderano aiuta il progresso dei trasporti, però ci ritroviamo con l’aria irrespirabile. Non credo che la rappresentazione del corpo maschile sia allo stesso livello di quella femminile: permane una certa sacralità reverenziale verso il maschio; ci sono ancora troppi pochi cazzi, anche se qualche chiappa maschile in più rispetto a prima. Il tabù deriva dalla cultura dell’antica Roma già cristiana e noi ne abbiamo ereditato il diritto di famiglia patriarcale. La difficoltà con la quale in Italia rappresentiamo il corpo maschile nudo va di pari passo con la mancanza dei diritti degli omosessuali, penso che le due cose siano strettamente correlate. Non a caso l’harem è sempre e solo formato dalle donne, tra le quali il maschio può permettersi di scegliere a suo capriccio. E si dice auguri e figli maschi, e non figlie femmine. Oppure, per chi ha fatto le scuole dai preti, c’è un canto che recita ‘Sian forti i figli, caste le figlie’: la cultura cattolica è fortemente fallocentrica. Non sono abbastanza informato sulle serie televisive che vanno adesso, ricordo però quanta fatica si è fatta a trasmettere in tv le scene di sesso del bellissimo film Brokeback Mountain. Io penso al tabù che associa, nel nostro paese, l’omosessualità al mondo del calcio. Il calciatore gay fa ancora scandalo, eppure il corpo è lo strumento del suo lavoro: quanto tempo passano ad allenarsi, a pomparsi i muscoli e a depilarsi, i campioni! Cosa c’è di più gay di questo?”.