Un mostro giuridico. Un contenitore esorbitante dove trovi di tutto: dal centro fitness all’assistenza ai sieropositivi, dal ristorante etnico all’università di lusso gestita dai religiosi. E poi enti lirici, partiti, sindacati…
Il cosiddetto “terzo settore”, ossia quegli enti che non sono istituzioni pubbliche ma neppure società private e che per questo ricevono trattamenti fiscali di favore – condizione che accomuna una larga parte delle associazioni lgbt italiane – secondo il sociologo Giovanni Moro “non esiste, ma è frutto dell’invenzione di un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora che hanno pensato bene di raggruppare sotto questa etichetta tutti gli enti che sono privi di azionisti e di consigli d’amministrazione”. Approvata direttamente dall’Onu, la classificazione sembra ormai inamovibile: “Negli Usa queste organizzazioni svolgono fondamentali servizi sociali, laddove la presenza dello Stato è residuale. Il problema è che il nostro e gli altri paesi europei si sono adeguati a quella catalogazione nonostante il welfare venga somministrato ai cittadini coi ruoli completamente rovesciati tra lo Stato e il privato sociale”. Moro, oltre a essere tra i fondatori di Cittadinanzattiva, presiede Fondaca (think tank sui temi della cittadinanza) ed è autore di un libro da poco uscito per Laterza dal titolo provocatorio Contro il non profit (128 pp. a 12 euro).
Il testo analizza i gravi limiti di questo abnorme paradigma economico-tributario, ai quali non sfuggono quelle associazioni gay che per statuto dovrebbero tutelare gli interessi della comunità arcobaleno e che invece finiscono per ridursi a meri gestori di finanziamenti pubblici, col corollario degli scarsi o nulli risultati concreti del loro lavoro: basterebbe ricordare la disastrosa condizione attuale dei diritti lgbt in Italia per farci venire qualche legittimo dubbio su quale sia la ragion d’essere di molte di loro.
“Gli enti non profit”, osserva Moro, “ricevono in automatico un’aura di benevolenza sociale che però spetterebbe solo ad una piccola parte di essi. Eppure tutte le associazioni di volontariato pagano solo il 10% di tasse perché sono tali per diritto, non per quello che effettivamente fanno”. L’analisi del sociologo lascia ad altri la denuncia delle periodiche ruberie che coinvolgono queste associazioni, ma osserva che “pensare che il mondo del terzo settore sia fatto per la maggior parte di gente caritatevole e che tra di loro si annidino poche mele marce è un errore”.
Nel suo libro Moro fa una casistica precisa dei punti deboli del terzo settore; alcuni di questi suonano come campanelli d’allarme per i militanti che abbiano confidenza col mondo dell’associazionismo lgbt. Ad esempio, “succede spesso che un’organizzazione benefica raccolga centomila euro per una buona causa ma che poi solo mille euro vengano effettivamente devoluti. Dov’è finito il resto dei soldi? Semplice: nelle cosiddette ‘spese di gestione’ della suddetta organizzazione”.
Ci sono poi quelle associazioni che si fanno concorrenza sleale all’interno della stessa area di competenza, come quando pagano i propri dipendenti molto meno di quelli degli enti omologhi. Il sociologo mette poi in guardia contro il rischio di “mercatizzazione” che porta le onlus a farsi una guerra spietata per raccogliere più fondi e donazioni possibili.
Inoltre, il proliferare di queste associazioni impigrisce uno Stato già in balìa di pesanti tagli alla spesa, distogliendolo dall’obbligo costituzionale di garantire ai cittadini il welfare per il quale pagano le tasse.
“Scrivendo questo libro ho scoperto che quasi il cinquanta per cento della spesa totale dei comuni italiani è destinato a queste organizzazioni”, ammette con sconcerto il sociologo romano. Aumentare i controlli di legge, però, è praticamente impossibile: “In Italia le onlus sono più di trecentomila. Occorrerebbe l’esercito per controllarle tutte”. E nemmeno servono più regolamenti: “Al mostro giuridico d’origine abbiamo aggiunto nel corso degli anni un’ulteriore confusione normativa. E il caos aiuta in un certo senso i vari esponenti politici sul territorio nel consolidarsi di rendite di posizione”. Come se ne esce, allora?
Moro propone di “destrutturare” tutte queste realtà associative, separandole in base alla loro specializzazione con un severo metodo di valutazione e attribuire loro uno status giuridico certo. Il criterio dovrebbe essere, banalmente, la misura con la quale queste associazioni fanno davvero l’interesse pubblico. La graduatoria varrebbe anche per le attività lgbt: “Arcigay, poniamo il caso, avrebbe una corsia tributaria preferenziale quando si occupa di promozione dei diritti dei gay o di informazione sulle malattie a trasmissione sessuale, mentre ne potrebbe avere molto meno quando svolge attività ricreative. L’obiettivo sarebbe un terzo settore più efficiente fatto di cittadini, anche quelli gay, che si organizzano per arrivare dove lo Stato non può arrivare. In fondo, il principio di sussidiarietà che animava la modifica costituzionale del 2001 dice proprio questo”.