Come in tanti ambiti l’Italia è in forte ritardo anche nella ricerca sociale sulle questioni lgbt. Basta andare nella vicina Slovenia per trovare un dipartimento di studi lgbt mentre in Italia questi insegnamenti sono i primi a essere cassati in caso di ristrettezze economiche.
L’ultimo, nonostante le settecento firme al rettore per scongiurarne la chiusura, è stato quello di Laura Corradi all’Università della Calabria. La nostra arretratezza deve essere evidente oltre confine se l’American Italian Association ha deciso di tenere per la prima volta non in Italia ma a Zurigo il suo convegno annuale (dal 23 al 25 maggio), con una sezione sugli studi di genere e relatori italiani che discuteranno di come cambia il genere in Italia.
“In Italia per ragioni culturali, storiche, istituzionali c’è scarso interesse sulle questioni di genere”, ci dice Elisabetta Ruspini, docente associato all’Università di Milano – Bicocca e tra i massimi esperti in Italia sui temi della sessualità “mentre in Inghilterra ogni università ha un dipartimento o un istituto di studi di genere. In Italia non compaiono nei programmi educativi e con fatica si cominciano a fare nelle università, con un sostegno finanziario quasi nullo.
Questo dipende da fattori culturali: siamo in una società familista, relativamente tradizional-tradizionalista, poco pronta a cogliere il mutamento sociale e a confrontarsi con il futuro. Il genere è una prospettiva che apre in maniera molto forte nei confronti del futuro e dei cambiamenti e allora è molto osteggiata”.
Ruspini presiede la sezione Studi di genere da poco faticosamente creata presso l’Associazione Italiana di Sociologia (AIS) che punta a promuovere la ricerca che sulla materia in Italia è iniziata per studiare i comportamenti a rischio di contagio a inizio degli anni ‘90. La prima ricerca seria sull’argomento è stata Omosessuali Moderni del 2001 basata su dati raccolti dal ‘95.
Luigi La Fauci, giovane palermitano ricercatore a Trento, sta conducendo la ricerca Essere LGBT in Italia (www.facebook.com/esserelgbtinitalia) con cui l’Istituto Cattaneo, il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G. Maria Bertin” dell’Università di Bologna, insieme alle associazioni della rete Bologna Pride, sta aggiornando i dati del ‘95 (raccolti 3100 questionari cartacei e 900 online). I risultati definitivi saranno pronti tra un anno, ma La Fauci anticipa a Pride alcuni dati (provvisori).
Il primo, non del tutto positivo, è che la percentuale di gay e lesbiche i cui genitori sanno della loro omosessualità e non nascondono di saperlo è aumentata dal 47% al 70% dal ‘95.
Si osserva però che mentre nel 1995-96 la maggiore apertura con i genitori era tra i più giovani, in linea con le tendenze crescenti di accettazione dell’omosessualità tra generazioni seguenti, nel 2012-13 chi ha meno di 25 anni ha minore probabilità di essere out con i genitori rispetto a chi ha tra i 25 e i 29 anni.
La percentuale di gay e lesbiche che hanno formalizzato pubblicamente la propria relazione stabile di convivenza, anche in modalità non riconosciute dalla legge (cerimonie e feste private), è quasi raddoppiata dal 1995-96 al 2012-13 (dal 23% al 39%).
“Si osserva una crescente necessità di riconoscimento pubblico delle unioni stabili da parte di gay e lesbiche italiani, espressa sia attraverso le poche forme legali finora presenti in Italia, sia, in mancanza di forme legali, istituzionalizzando simbolicamente la vita di coppia”, commenta La Fauci, “questi risultati sono in linea con quanto osservato a proposito dell’importanza dell’aspetto simbolico e culturale del riconoscimento della vita di coppia omosessuale (“non solo diritti, ma anche pari dignità”) in paesi in cui la situazione giuridica è similmente frammentata e ancora non decisamente favorevole ai diritti, come negli Stati Uniti”.
A Bologna, nel 2007 si è tenuto il primo master di studi post-universitari Welfare state e cittadinanza: gay, lesbiche, bisex e trans, e da qui Arcigay ha promosso indagini, non accademiche, a livello nazionale.
Raffaele Lelleri, che ha firmato molte di quelle ricerche, sta al momento lavorando a una sulla percezione dell’invecchiamento da parte delle persone lgbt.
La ricerca è appena partita ma in base a una indagine pilota già effettuata Lelleri può dirci che “la gran parte dei gay e delle lesbiche pensa al proprio invecchiamento e ha nel proprio giro persone anziane lgbt anche se non le frequenta assiduamente.
Le persone più grandi di età sono considerate più sexy. A partire dai 40-45 anni di età i maschi e le femmine guardano avanti, cercano partner più grandi invece dei coetanei e dei più giovani. Se le persone anziane socialmente vengono lasciate ai margini, dal punto di vista sessuale c’è più ‘democrazia’”. Su www.lelleri.it/sondaggio-reti è possibile trovare il report dell’indagine già effettuata e il sondaggio nuovo.
Cambiando latitudine, Cirus Rinaldi, ricercatore all’università di Palermo, in un recente corposo studio edito da Kaplan La violenza normalizzata. Omofobie e transfobie negli scenari contemporanei (2013), propone un profilo dell’omofobo-tipo a partire dall’analisi dei report sull’omofobia, tenendo conto della distribuzione territoriale, delle caratteristiche socioanagrafiche di aggressori e di vittime ma soprattutto delle dimensioni relazionali tra vittima e aggressore, delle tipologie e delle dinamiche delle condotte violente e dei loro effetti.
Sempre a Sud, Fabio Corbisiero e Amalia Caputo, impegnati sulla dimensione territoriale dell’inclusione, hanno il merito di aver sdoganato le questioni di genere nell’ateneo Federico II di Napoli, con ricerche che evidenziano la presenza di un “turismo di welfare”, con mèta le città con servizi avanzati per lgbt, come la “procreazione medicalmente assistita” o leggi matrimoniali egualitarie, e uno più territoriale che caratterizza gli spostamenti dei giovani del centro-sud verso le grandi città del nord rainbow-friendly.
Altro filone della “scuola partenopea” i rapporti tra diversa abilità e sessualità, anche se “gli studi sul doppio stigma disabilità-orientamento sessuale in Italia non sono ancora partiti, esistono a livello territoriale piccoli gruppi che se ne occupano come, a Napoli, il centro Sinapsi”, ci dice Corbisiero, “non si pensa che la persona disabile abbia una propria affettività o sessualità. Da noi questo è un tabù, eppure la sessualità delle persone disabili è un argomento ben noto nella letteratura scientifica internazionale. In paesi come il Giappone esistono cooperative che offrono tra i servizi alla persona disabile l’attività sessuale”.
A Napoli la sinergia che si è creata tra associazioni, istituzioni ed enti di ricerca ha portato all’avvio di un ambizioso programma di ricerca e formazione per operatori sociosanitari, agenti di polizia, eccetera come già avvenuto solo a Torino e (in misura diversa) a Roma dove tra le altre cose, con finanziamenti pubblici, l’associazione Di’GayProject organizza ogni anno il premio per miglior tesi di laurea e di ricerca “Maria Baiocchi” (goo.gl/qfi1ht) che ha dato vita alle raccolte di saggi OmoSapiens (edite da Carocci).
Il curatore dell’ultima raccolta (nel 2008), Luca Trappolin, ci parla della necessità della ricerca che “viene presa in considerazione a livello delle istituzioni europee molto più che delle italiane, per capire dove sono presenti problemi ad attuare i diritti fondamentali e intervenire. Ora che è acquisita visibilità sulle questioni lgbt sembra che l’omofobia non esista più ma non è affatto così.
La ricerca sociale è importante per capire in che modo l’eternormatività cambia, mascherandosi, e per questo serve alle istituzioni più interessate alla lotta alla discriminazione.
UNAR, per esempio, i ministeri, gli stessi soggetti che compongono la comunità lgbt e soprattutto i decisori politici locali, per capire in che modo è possibile attuare politiche inclusive, e infatti nella rete RE.A.DY (“Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazioni Anti Discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere”) c’è un grande collegamento tra ricerca sociale e politiche, per capire in che modo è possibile provvedere a livello locale laddove lo stato latita, come appunto i diritti di eguaglianza delle persone lgbt”.
“Tutte le azioni da programmare anche nel movimento lgbt dovrebbero essere evidence based (basate su evidenza scientifica, ndr), perché oggi anche gli omofobi di professione citano dati per supportare le loro opinioni”, conclude Raffaele Lelleri, “se poi ci fosse una comunità scientifica che sia in grado di dare legittimità ad alcune ricerche piuttosto che ad altre fatte da ciarlatani sarebbe una cosa buona.
Ecco, bisognerebbe recuperare esperienze come la Libera Università Omosessuale in cui tutti i ricercatori che in quel momento si occupano delle nostre questioni possano condividere le loro esperienze di ricerca e scoprire le aree in cui non c’è abbastanza attenzione”. Magari senza andare a Zurigo.