Il suo bel viso mediterraneo molti spettatori ora lo associano a quello di Antonio, il terribile padre omofobo di Mine vaganti di Ferzan Ozpetek e ruolo che gli è valso un David di Donatello (ma in Saturno contro dello dello stesso regista era invece l’ex compagno di Pierfrancesco Favino) ma Ennio Fantastichini al cinema ha dato molte altre prove di valore, a partire da I ragazzi di via Panisperna e Porte aperte, entrambi firmati da Gianni Amelio, a Ferie d’agosto di Paolo Virzì, senza farsi mancare la televisione (La piovra 7, Sacco e Vanzetti).
Come tanti colleghi famosi, i suoi inizi sono stati però a teatro, nelle cantine romane degli anni ’70 per approdare in seguito a Milano con Dario Fo nel periodo degli spettacoli alla palazzina Liberty. “Facevamo le ronde di notte per proteggerla dai fascisti”, ricorda l’attore. “Per me il teatro – aggiunge – è come la militanza: ha ancora sacche di resistenza, la gente che esce da casa senza cedere all’inerzia della tv o alla tentazione dei dvd pirata. A teatro si vede che in questo paese non sono tutti morti e ti senti meno solo”.
Dopo un paio di stagioni nel ruolo di un impenitente seduttore fatto capitolare da una fascinosa slava nel Catalogo di Jean Claude Carrière accanto a Isabella Ferrari, lo ritroviamo in palcoscenico nei panni di Robert O’Brien, docente di eloquenza scespiriana che per vivere si adatta a fare il logopedista e correggere difetti di pronuncia.
È lui il protagonista gay di Beniamino, pièce diretta da Giancarlo Sepe, scritta nel ’76 ma ambientata in una cittadina australiana negli anni sessanta da Steven J. Spears.
Per non essere messo al bando dalla comunità in cui vive, Robert tiene segreta la sua omosessualità e si accontenta di amori platonici per giovanetti e di trasgressive uscite en travesti in compagnia dell’amico e confidente Bruce, regolarmente sposato ma amante di trucchi e tacchi.
Per vincere la solitudine colloquia con il busto di Shakespeare e un poster di Mick Jagger.
La sua vita è sconvolta da un ragazzino, quello del titolo, che gli viene portato dalla madre per migliorarne la dizione. Costui ha già rapporti con uomini e, percepito l’interesse del professore, mette in atto uno sfacciato tentativo di seduzione a cui Robert riesce stoicamente a resistere, forte dei suoi valori etici e morali.
Il suo equilibrio mentale viene però messo a dura prova e quando alcune foto birichine che Beniamino gli aveva inviato vengono scoperte a casa sua, viene denunciato come pericoloso pedofilo e condannato a restare in manicomio per il resto della vita con l’obbligo di sottoporsi alla barbara pratica dell’elettroshock. Nonostante la psiche confusa, è una condizione che lui avverte di non poter tollerare e si risolve a mettere in atto un disperato proposito.
Per approfondire questo struggente personaggio e chiedergli una riflessione sul nostro presente, incontriamo Ennio poco prima di andare in scena al Franco Parenti di Milano dove il pubblico, con qualche luccicone negli occhi, ogni sera lo copre di applausi. In dicembre la tournée tocca Vigevano (il 10), Trieste (l’11 e il 13), Novi Ligure (il 14) e Lamporecchio (il 15).
Quali sono le motivazioni che Le hanno fatto scegliere questo testo?
L’ho capito a posteriori durante un’intervista radiofonica, una specie d’illuminazione: credo che in questo momento sia un lavoro di grande importanza sociale che va oltre il piacere e il dolore della mia professione. In questo paese l’omofobia, l’aggressione verso la diversità, il razzismo, in parole povere il fascismo, si sta risvegliando palesemente. La mia militanza culturale mi porta a essere contro ogni tipo di intolleranza che ora sento pericolosamente riaffiorare. Poi, a livello personale, volevo affrontare un personaggio omosessuale, anche se non amo questo termine, perché definire una persona “omosessuale” ha già i connotati di un atto di razzismo, infatti non diciamo: “Lui è etero”. Le persone sono persone, come vivono nel privato non deve interessare gli altri. Inoltre mi ha colpito la scrittura poetica forte: non è un monologo ma uno spettacolo con me e tre fantasmi. La struttura drammaturgica è fortemente moderna, astratta ma supportata da una verità quasi violenta. Immagino il percorso drammatico di Spears, autore e attore gay, che in Beniamino riversa molto della sua biografia, in un paese dove, al pari dell’Inghilterra, sino a 50 anni fa si puniva l’omosessualità con il carcere. La vera vittima sacrificale della storia non è il ragazzo, che è il seduttore, una Lolita al maschile, ma Robert e la sua fanciullesca innocenza.
Qualcuno potrebbe pensare a una vicenda che sfocia nella pedofilia…
Niente di più sbagliato: la pedofilia non c’entra per niente. Si tratta di un amore platonico, simile a quello per Tazio in Morte a Venezia, che non trascende mai in ambito fisico. Robert lo esplicita chiaramente nel dialogo con Bruce quando si dice felice di aver resistito alla tentazione di toccare il ragazzo. La regia di Sepe sottolinea poi i passaggi in cui lui gli si rivolge con accenti colmi di amore paterno, fiero del suo cucciolo, il cui vero padre è sempre assente. Con questo non nego che gli adolescenti talvolta siano seduttivi: mentre giravo un film, una ragazzina di tredici anni mi aspettava ogni mattina, sorridendomi languida e lanciandomi messaggi subliminali. È significativa la recente vicenda delle minorenni romane che si prostituivano con i genitori consenzienti per soddisfare le pulsioni consumistiche: ecco i risultati del capitalismo.
Lei stesso ha dichiarato di essere stato da ragazzino vittima di molestie.
È vero. È successo quando avevo 12 anni con un prete dell’oratorio, ma mi sono difeso: ho usato le maniere forti e gli ho subito fatto cambiare idea.
Oltre alle giovanissime escort, la cronaca nazionale si è dovuta anche occupare del drammatico suicidio di Simone, un giovane omosessuale di Roma.
La prima reazione è stata l’urlo di un padre: ho un figlio di 17 anni e il mio lavoro d’attore mi fa sentire in perenne transfert emotivo e identificativo. Ho immaginato quell’uomo e quella madre che scendevano le scale urlando per andare a identificare il figlio in un lago di sangue. È l’immagine che alimenta la mia indignazione pensando che quel ragazzo è vittima di tutti noi, o del nostro silenzio o della nostra aggressività. Su questo tema non voglio essere silente ma scoperto e propositivo: credo che questo urlo debba arrivare ogni giorno. E ogni giorno bisogna fecondare e alimentare la propria indignazione. Il lavoro degli attori, muratori della poesia, dovrebbe essere quello di ricordare alle persone che abbiamo tutti gli stessi diritti e che è un crimine perseguitare chi è diverso da noi.
A proposito di diritti, giace in Parlamento una proposta di legge contro l’omofobia che ancora una volta si annuncia come il solito compromesso.
Vorrei mandare un grazie solidale a Carlo Giovanardi al quale augurerei lo stesso dolore dei genitori di Simone per la sua aggressività contro gli omosessuali. Faccio nome e cognome perché sono indignato per certe sue dichiarazioni: uno che si incazza così è certo che debba avere qualche scheletro nell’armadio. Quando vedo due uomini che si baciano mi fa un piacere meraviglioso perché penso che in quel momento si amano. Forse non mi rendo conto di essere, rispetto alla media dei nostri connazionali, “avanti”, al pari di mio figlio che non riesce a capacitarsi di come si possa discriminare una persona di colore. Un imbecille cranioleso invece lo fa, salvo poi la sera andare magari a trans.
Cosa ricorda invece del personaggio di Antonio nel film di Ozpetek, un padre molto diverso da lei?
Naturalmente non c’era niente di me, però alla presentazione del film a Firenze successe una cosa toccante. Al termine della serata si avvicinò un signore della mia età chiedendomi se mi poteva abbracciare: con le lacrime agli occhi, mi disse che aveva un figlio gay che non riusciva a accettare ma che Antonio gli aveva fatto cambiare idea. Se riesco a far cambiare un solo Antonio, significa che ho due palle così, questo intendo con lavoro socialmente utile.
A proposito, non le manca un po’ la stagione del grande cinema italiano, quella di film come Porte aperte?
Certo che sì, ma quell’Italia è finita: il pubblico ha il cervello pieno di vermi. Vent’anni di televisione commerciale, insieme alla Rai che non scherza e cerca di imitarla parlando solo di numeri, ha portato il paese nelle tenebre e gli ha fatto fare una scelta apoetica.
Nonostante tutto, la vedremo presto ancora sullo schermo e in palcoscenico?
C’è un progetto con Valerio Binasco: insieme stiamo costruendo anche la parte drammaturgica. Non m’interessano affatto i classici, voglio fare un teatro vivo e di morte: i miei autori di riferimento sono Koltès e Artaud. Al cinema sta per uscire Il pasticciere, un noir diretto da Luigi Sardiello, in cui ho un ruolo tutto al negativo, un avvocato figlio di buona donna, accanto a Antonio Catania. Poi a febbraio esce La mossa del pinguino, del regista Claudio Amendola, con Ricky Menphis e Antonello Fassari: una commedia malinconica su quattro giocatori di curling dove io faccio un tremendo vigile viterbese coi baffetti alla Modugno. Lavorare con colleghi che sono anche amici è un’esperienza splendida: un grande abbraccio che sembra abbia prodotto un’opera di qualità.
Ha rivelato che negli anni della rivoluzione sessuale non si è fatto mancare anche esperienze con uomini: com’è andata?
Come tutti ho avuto rapporti con ragazzi della mia età: erano gli anni Settanta e professavamo le teorie di William Reich. In quel periodo quello che la mia generazione privilegiava era la comunicazione e il contatto: quest’ultimo talvolta è stato un contatto fisico, con grande tranquillità e serenità. Giocava anche l’atteggiamento mentale secondo il quale dovevi essere disponibile a tutto, fare l’amore con un uomo o accettare che la tua fidanzata andasse con un altro. In anni successivi invece mi sono ritrovato in imbarazzo a bloccare avances anche molto esplicite: temevo di apparire duro e crudele. Ritenevo di aver fatto una scelta precisa, ma riflettendoci, avevo scelto una persona non un orientamento sessuale. Definire sessualmente un essere umano è discriminarlo: non è una religione, l’importante è amarsi.