L’uovo e la gallina: la storia è sempre quella. I teorici dei media fanno ancora un gran discutere su chi venga prima: cinema e televisione influenzano i costumi o ne sono influenzati? Dettano mode o ne registrano l’esistenza? Un po’ l’una e un po’ l’altra cosa, sostengono i più prudenti dividendo equamente meriti e oneri.
Ci sono anche un uovo e una gallina gay. Rispetto ai media, intendo. Quello che sta succedendo al cinema, e forse ancora più vistosamente nelle serie Tv, è il frutto di un cambiamento sociale complessivo o ne è parte integrante e attiva? Cinema e televisione stanno solo adeguandosi a quanto succede sul piano politico, giuridico e culturale o stanno ancora influenzando l’immagine delle persone gay e lesbiche?
Penso anch’io che la risposta salomonica sia quella giusta, ma in fondo conta meno del fatto in sé, qualcosa che i militanti della mia generazione e di quelle precedenti (diciamo chi si sporca le mani con queste cose da almeno vent’anni) a mia memoria non si aspettavano di arrivare a vedere di persona e sognavano al limite per le generazioni successive, paghi di vedersi quali martiri per un futuro migliore. E invece tutto è cambiato molto più rapidamente del previsto.
E così, mentre i gay sono in prima pagina un giorno sì e uno no, sono anche ovunque nei film mainstream e sono ovunque in televisione, a ogni ora e senza doversi limitare a farsi l’occhiolino di nascosto o a darsi una pacca sulla spalla. Possono abbracciarsi, baciarsi (anche alla francese) e dividere letti matrimoniali senza essere divorati da dissolvenze allusive. Guai anzi a farsi mancare oggi un gay, e guai a non parlarne più che bene.
Se nel 1998 John Madden ci aveva inflitto quel campione di revisionismo storico che è Shakespeare in Love, ora firma una commedia di grandi attori che pare riparativa, Marigold Hotel, dove il personaggio gay dice tutto quello che deve dire senza scandalo per nessuno. Oggi si fa così. E mentre Almodóvar in questo contesto si può ben concedere una pausa di pura distrazione con Gli amanti passeggeri, il cinema gay esplode, letteralmente: da nicchia esclusiva di cui non importava nulla a nessuno e deleteria per incassi e carriere, è divenuta la patente più facile da ottenere di buona fede politica e di buone intenzioni umanitarie.
E così non c’è più scuola superiore senza il suo bravo alunno gay (Noi siamo infinito), che magari parla ancora con l’orsacchiotto (Animals), ma solo perché ha tanti altri problemi. Attraverso personaggi gay si può parlare di tutto, dalla crisi economica (Cal) al senso della vita secondo un vaccaro olandese (il titolo tradotto verrebbe C’è silenzio lassù).
Normalmente i personaggi riescono persino a sopravvivere oltre i titoli di coda. Ma il fatto importante è che se muoiono prima non è perché sono gay, e se muore qualcun altro non sono (sempre) loro ad averlo ammazzato. Poi ovviamente le storie d’amore possono anche finire male (Solo, Keep the Lights On), ma questa è la vita, non è omofobia.
Paradossalmente cresce la moda parallela di non dirsi gay, ma al limite queer. E così tutti i gay che si dicono queer scrivono che Lo sconosciuto del lago non è un film gay bensì universale, che parla della vita e parla a tutti.
Per me questa è pura e semplice omofobia interiorizzata, oltreché ignoranza dei meccanismi del mercato. Lo sconosciuto del lago è un film gay pensato anzitutto per un pubblico gay, il che non impedisce al suo regista di infarcirlo d’altro e ai distributori di sperare di attirare anche le sciure milanesi montando lo scandaletto del vero pisello succhiato dal vero. Parlare di omosessualità significa parlare della vita e il problema è tutto di chi sente il bisogno di infilare in mezzo alle due un “ma”: parla di omosessualità ma anche di cose importanti…
Ed ecco il paradosso (per me) della situazione attuale: mentre l’omosessualità è ovunque, molti gay tuttora sono tali solo ai festival gay. A ben vedere non è che l’abito moderno di un problema vecchio quanto il mondo, ma il risvolto interessante è che in questo modo si riesce a dare una specificità (sempre più tenue, però) ai festival gay che altrimenti non sembrerebbero avere più grandi ragioni di esistere, oggi che i personaggi omosessuali sono ovunque e i film si possono facilmente rimediare in qualsiasi momento (sovente prima che arrivino ai suddetti festival).
Si potrebbe anche scorgervi il sintomo di un problema annoso che ci porterebbe però un po’ fuori strada, e cioè a riflettere sulla dialettica tra integrazione e differenziazione, antica quanto quella dell’uovo e della gallina e da sempre fonte di scontri appassionati fra i militanti d’ogni tempo e d’ogni età.
Il punto è che solo vent’anni fa, ma anche meno, certe cose (nello specifico noi, le nostre esperienze, le nostre vite e anche il nostro sesso) il cinema le mostrava solo nei prodotti di nicchia, nei film underground pagati con i sussidi di disoccupazione, messi insieme con un direttore della fotografia ipovedente, un fonico sordo e attori rubati all’agricoltura (quando andava bene, ma proprio bene, ti capitava il più modesto dei molti Arquette, il bel Alexis, oggi transgender).
Ovviamente queste cose le potevi vedere, felice e contento, solo ai festival, poi sparivano quasi tutte per sempre. Tanto che c’era gente che ai festival gay andava davvero a vedere i film, anche per giornate intere pur sapendo che, ad andar bene, sarebbe capitata giusto un’opera decente, la sera.
Non che i film da festival siano venuti completamente meno, ma le ragioni per farli sono mutate, considerate anche le tecnologie attuali. Se ad esempio il pornodivo Brent Corrigan decide di promuoversi come attore e regista “serio” e produce un film con la mano sinistra, non è per reale necessità ma perché tanto basta per chi dei festival specializzati si accontenta. E non vi sono dubbi che questi ultimi faranno a gara per avere il film del bel ragazzotto, e il bel ragazzotto al seguito per un bell’evento. Al solo costo di infliggere al pubblico Triple Crossed, fresco di montaggio.
Ma a fianco di questa produzione che si accontenta pur potendo evitarlo, vi sono platee festivaliere ben più appetibili cui puntare per prodotti superiori per qualità o sponsor, essendoci ormai sezioni gay in tutte le kermesse importanti con tanto di premi speciali, dai Teddy Awards di Berlino (inaugurati in tempi non sospetti) ai recentissimi Queer Lion di Venezia (e guai a dirlo gay, ammonisce Wikipedia!) e Queer Palm di Cannes. Inutile commentare vincitori e assegnazioni, ché lo scopo dei premi non è mai stato quello di promuovere i migliori. I premi sono questione di politica, anche culturale al limite, e li richiamo solo per completare il quadro di una raggiunta visibilità e di una complessiva istituzionalizzazione, così come registro quale segnale positivo l’inclusione del Da Sodoma a Holywood di Torino nel circuito dei festival orbitanti intorno al prestigioso Museo Nazionale del Cinema, all’ombra della mole.
Insomma, se gay è bello, e già lo sapevamo, adesso è pure di moda anche nel mondo del cinema. E dato che un tempo recitare la parte di un gay significava compromettere la carriera, non lascia indifferenti vedere due attori come Michael Douglas e Matt Damon, promossi negli anni quali squartapapere compulsivi, fare coppia (proprio nel senso di andare a letto insieme) in Dietro i candelabri, rispettivamente nei panni di Liberace e del suo compagno, diretti da un’ex enfant terrible come Soderbergh. Produce HBO (una delle televisioni più friendly mai viste), prossimamente sui grandi schermi in Italia, già passato su quelli piccoli negli Stati Uniti.
Un buon esempio di sinergia tra cinema e televisione, altro segno dei tempi mutati. Nei primi anni novanta definire “televisivo” un film era ancora il peggior insulto che si potesse immaginare, mentre oggi sarebbe un complimento. Il livello qualitativo e le possibilità di rappresentazione (grazie soprattuto alla moltiplicazione di canali via cavo, satellitari e a pagamento, senza contare la moda recente delle serie per web) si sono pressoché parificati a quelli cinematografici, mentre nel mercato concorrenziale che ne è derivato i gay hanno cominciato a rappresentare una fetta di pubblico rilevante. Di conseguenza anche in televisione i personaggi gay, un tempo sparuti, generalmente occasionali, sempre casti e di solito nemmeno troppo dichiarati, oggi sono moneta corrente, sovente in ruoli di rilievo che ricorrono per intere stagioni o per tutta la durata della serie.
Negli ultimi tempi abbiamo visto di tutto, e non solo nel vano tentativo di replicare successi del passato, senza successo (Devious Maids rispetto a Desperate Housewives, Sean Saves the World rispetto a Will & Grace).
Tanto che gay e lesbiche sono dappertutto e in forme politicamente corrette anche in un genere come l’horror dove, fino ad anni recenti (e non penso a Psyco, ma a Hostel, anno 2005), per tradizione eravamo sempre i cattivi, gli assassini, i più truci aguzzini. La nuova stagione di American Horror Story è ampiamente sotto le attese ma le prime due hanno brillato per qualità, anche nella rappresentazione dell’omosessualità, prima con una sofferta coppia gay in crisi e poi con una giornalista lesbica militante, mentre vanno per la maggiore alcuni successi giovanili di minori pretese come la vampiristica True Blood o l’equivalente licantropo Teen Wolf. Il politicamente corretto si fa qui insidioso, per il semplicismo con cui liquida i problemi reali o ne fa solo il pretesto per lunghe sfilate di addominali, ma insieme a quello imperante in molte altre serie diurne e non (soap, sit-com e drammi) per ragazzini segna un progresso notevole dai tempi in cui avevamo solo la spalla del Jack di Dawson’s Creek su cui piangere. E una bella sorpresa è stato In the Flesh, storia di uno zombi gay come quelle che si facevano una volta, in cui si fa capire tutto senza bisogno di dire (quasi) niente.
Guarda insieme al passato e all’oggi anche Vicious, una sit-com di quelle di cui un tempo ci saremmo disperati (e infatti la critica inglese, che è molto seriosa, non l’ha capito e si è disperata) e proprio per questo rappresenta meglio di altre l’entità del traguardo raggiunto: possiamo ormai permetterci di giocare con gli stereotipi più risaputi e abominevoli (dico noi perché i protagonisti sono gay dichiarati del calibro di Ian McKellen e Derek Jacobi). È qui il caso di una tradizionale coppia di checche acide, in Mrs Brown’s Boys è invece quello di un effeminatissimo irlandese, il quale nondimeno è protagonista di una puntata sui matrimoni gay in cui basta il semplice buon senso popolare per tenere testa al parroco del paese.
C’è spazio anche per ripensare la nostra storia: dall’Australia è arrivata A Place to Call Home, una soap tutta incentrata sul segreto di Pulcinella dell’omosessualità di un giovanotto cui riesce difficile uscire allo scoperto, visto che vive in una famiglia conservatrice della provincia degli anni ’50; la Svezia ci ha regalato invece una bellissima miniserie sugli anni dell’avvento dell’Aids (il titolo in italiano suona Mai asciugare le lacrime senza guanti).
Ma forse la novità più significativa sono i ruoli degli aiutanti del e della protagonista nelle nuove serie d’azione, quelle dove ogni due per tre salta in aria qualcosa o partono scazzottate da uomini veri (come Orphan Black e Banshee), anche quando l’uomo vero è una trans (Hit & Miss). Se si tratta di personaggi a rischio stereotipo (effeminati, eccentrici, e così via), sono comunque riscattati da un spirito militante esplicitato a parole e, quando non basta, a sberle.
Sono solo esempi sparuti tra i tanti possibili. La situazione è in fermento e in continua evoluzione, richiede attenzione e va sorvegliata perché le sorti, si sa, non sono né magnifiche né progressive. Ma intanto c’è di che essere soddisfatti dei risultati ottenuti, magari pure orgogliosi.
E se a qualcuno l’orgoglio suona troppo datato si metta l’anima in pace: è solo perché questi risultati non li dobbiamo a lui.