Un’altra partita vinta (anzi due) ma il lavoro non è finito. È un po’ questo il bilancio delle attesissime sentenze relative al matrimonio omosessuale su cui i giudici della corte suprema degli Stati Uniti hanno fatto conoscere il loro parere il 26 giugno scorso. La prima pronuncia ha demolito il Defense of Marriage act (Doma) del 1996, che riconoscendo come matrimonio solo l’unione eterosessuale negava i benefici federali previsti dalla legge anche alle coppie omosessuali regolarmente sposate negli stati in cui le nozze gay sono consentite. Il caso specifico esaminato riguardava il ricorso di Edith Windsor, di New York e ultraottantenne, che aveva dovuto pagare 363.000 dollari di tassa di successione quando aveva ereditato le proprietà della sua compagna Thea Speyer. Cosa che non sarebbe accaduta se fosse stata sposata con un uomo. Con una maggioranza di 5 a 4 i giudici, oltre al rimborso della signora Windsor, hanno stabilito che Il Doma non è conforme alla costituzione in quanto viola il principio dell’equa tutela garantita a ciascun cittadino, insieme al diritto dei singoli stati a legiferare in tema di matrimonio. Di conseguenza le coppie gay e lesbiche sposate negli stati dove la loro unione è legale devono usufruire degli stessi diritti di quelle eterosessuali anche a livello federale. La decisione della corte non riguarda però il bando contro il matrimonio gay previsto dalle costituzioni di 29 stati. Anzi, sottolineando l’autonomia decisionale di ciascuno stato in materia, in un certo senso lo salvaguarda.
Il nodo del diritto costituzionale a sposarsi degli omosessuali non è stato sciolto in modo inequivoco nemmeno dalla seconda sentenza, che ha riaperto comunque la strada alle nozze omosessuali in California. In questo caso la corte, di nuovo con una maggioranza di 5 a 4, ha rimosso di fatto la “Proposition 8”, ovvero il bando introdotto con un referendum del 2008, dichiarandosi favorevole all’abolizione ma rinviando la decisione di merito a una corte californiana. Il suggerimento è stato immediatamente accolto dalla corte d’appello del nono distretto, a San Francisco, che aveva sospeso gli effetti del proprio sì alla cancellazione del bando in attesa dell’epilogo della battaglia giudiziaria. E che due giorni dopo la pronuncia della corte suprema ha autorizzato ufficialmente il ritorno dei matrimoni omosessuali in California. Il giorno stesso una coppia lesbica di San Francisco e una coppia gay di Los Angeles, protagoniste della causa legale contro la Proposition 8, si sono sposate. La California è la tredicesima stella dell’America che riconosce il matrimonio ugualitario. Tredici stati (più il distretto federale di Washington) su 50. Ancora pochi, ma in termini di popolazione sfiorano il 30%. La direzione di marcia è quella giusta e i sostenitori della parità per le coppie omosessuali sentono il vento in poppa. Il doppio via libera, sia pure annacquato, della corte suprema è stato salutato con festeggiamenti a Washington, dove i giudici erano riuniti, e in molte altre città.
Le congratulazioni più d’effetto sono arrivate ancora una volta dal presidente Barack Obama, che ha creato per l’occasione l’hashtag “love is love” su Twitter e ha detto che “quando tutti gli americani sono considerati uguali, non importa chi siano o chi amino, siamo tutti più liberi”. A bordo dell’Air Force One dove si trovava in viaggio per il Senegal, Obama ha anche chiamato personalmente per felicitarsi i vincitori dei ricorsi. Il procuratore generale dello stato della California, Kamala D. Harris, ha invece personalmente unito in matrimonio, Kris Perry e Sandy Stier (nella foto), due delle principali ricorrenti, e ha affermato: “I gay e le lesbiche hanno aspettato a lungo per questo giorno e per il loro diritto fondamentale a sposarsi. Finalmente il loro amore è legittimo e legale come gli altri”.
Umori decisamente neri, invece, sul versante antigay. I giudizi della corte suprema hanno segnato “un giorno tragico per gli Stati Uniti”, secondo i vescovi cattolici americani. Altri rappresentanti del fronte conservatore sostengono però che non è detta l’ultima parola. Tony Perkins, presidente del Family Research Council, ha predetto che gli americani si ribelleranno di fronte alle funeste conseguenze dei matrimoni gay, come l’introduzione di insegnamenti immorali nelle scuole e l’obbligo per fioristi e pasticceri cristiani a collaborare alla riuscita di cerimonie contrarie alle loro convinzioni religiose per conservare il lavoro. Anche lo speaker della camera dei rappresentanti John Boehmer, il più potente repubblicano al congresso, ha espresso il proprio disappunto per la situazione, augurandosi che “prosegua un robusto dibattito nazionale riguardo al matrimonio sulla pubblica piazza” e che gli stati “lo definiscano come l’unione tra un uomo e una donna”. I sondaggi però gli danno torto, così come la reazione a catena in favore dei diritti glbt. All’indomani delle decisioni della corte suprema, per esempio, il segretario di stato alla difesa Chuck Hagel ha dichiarato che il Pentagono inizierà al più presto a estendere i benefici federali ai militari gay e lesbiche sposati. Le stime ufficiali parlando di 18.000 coppie omosessuali almeno un componente delle quali è al servizio delle forze armate, anche se non c’è ancora un censimento delle coppie legalmente sposate. Nel frattempo il governatore della California Jerry Brown ha ordinato al personale amministrativo a prepararsi alla prevista prossima ondata di nozze omosessuali. Il Willams Institute dell’Univesità di California sostiene che “per l’economia in generale i matrimoni gay sono tutta salute”, con tutti i loro costosi annessi e connessi. E se poi le coppie dovessero scoppiare sarà una manna per i divorzisti.