Un aspetto interessante del voto politico che tanto ha colto di sorpresa gli addetti ai lavori è che il parlamento uscito dalle urne non avrà, almeno sulla carta, una maggioranza allineata per ragioni di coscienza o di convenienza su posizioni clericali. E questo accade in un momento in cui il Vaticano, che negli ultimi tre decenni ha fornito un formidabile alibi reazionario al ceto politico tradizionale, è affaccendato a ridefinire i propri interni equilibri di potere dopo la clamorosa mossa delle volontarie dimissioni di un papa. E chissà che anche lì, anche se non è lecito prevederlo, non si arrivi a una miracolosa presa di coscienza della necessità di cambiare per una chiesa “rimasta indietro di duecento anni”, secondo le parole del defunto cardinale Carlo Maria Martini.
Tale necessità è avvertita sicuramente dal popolo italiano, almeno in senso generico e sia pure con lati oscuri e contraddittori, come sta a dimostrarci l’esito delle elezioni. Tocca adesso a coloro che nel parlamento sono entrati offrire qualche risposta convincente, proporre una direzione di marcia e una strategia di uscita dalla crisi, economica ma ancor prima antropologica, che ci pungola dolorosamente da lungo tempo. L’alternativa, nel breve periodo, è un caos permanente in grado di trasformare le paure già presenti in panico e l’indignazione, fin qui espressa in modo tutto considerato civile, in rabbia cieca e diffusa. I percorsi agibili sono molto stretti, ma non è raro che sotto pressione si scopra di possedere energie creative insospettate. È questa la sfida che gli elettori hanno consegnato agli eletti. E insistere sul fatto che il nuovo parlamento sia nato morto non è un modo per affrontarla con atteggiamento nei limiti del possibile costruttivo.
Passiamo quindi dallo scenario generale allo specifico che riguarda la battaglia per i diritti glbt e la sua traduzione legislativa in norme di tutela per i milioni di cittadini non eterosessuali che vivono in questo paese e pagano come gli altri (e spesso anche di più) il prezzo della crisi. Il riflesso condizionato di quasi tutti i commenti elettorali “a caldo” ha condotto a depennare istantaneamente dall’agenda politica questi temi, che pure hanno avuto un loro spazio nella campagna che ha preceduto il voto, sulla base del ben noto ragionamento che le priorità anche questa volta saranno altre: l’emergenza economica, le riforme isti e costituzionali, l’abbattimento dei privilegi del ceto politico eccetera. Ma senza voler sminuire la portata delle questioni “maggiori”, bisogna ostinarsi a credere che esista anche in questa legislatura, per quanto breve possa rivelarsi, la possibilità di aprire una pagina nuova sulle numerose e inevase domande di diritti civili (non solo glbt). I numeri in parlamento per la prima volta, come abbiamo già osservato, potrebbero esserci eccome. Certo, perché possano arrivare a esprimersi in compiute iniziative legislative, sarà necessario che l’Italia abbia almeno per qualche mese un governo e una maggioranza che lo sostiene.
Da questo punto di vista esiste un’ipotesi del tutto negativa che consiste nelle cosiddette “larghe intese” tra le forze di centrosinistra, centro e centrodestra alle quali il giudizio dei cittadini è costato complessivamente milioni di voti malgrado il numero di seggi conquistati in virtù dei trucchi consentiti dal sistema elettorale. In questo caso l’accordo non potrebbe che limitarsi agli argomenti più strettamente economici, con eventualmente qualche specchietto per le allodole sull’autoriforma della politica, lasciando da parte tutto il resto per le note divergenze tra i vari schieramenti.
L’altra strada è quella di un qualche tipo di accordo tra il centrosinistra e il Movimento cinque stelle, che potrebbe essere un po’ più ampio e concentrarsi sulle proposte concrete anziché principalmente sulle tattiche di palazzo per assicurarsi qualche vantaggio competitivo in vista della prossima tornata elettorale. A molta gente che ha votato Pd, Sel o Cinque Stelle questa prospettiva sembra piacere, almeno stando ai sondaggi che pure in queste settimane non sono al top della credibilità. Mentre fa orrore, dentro e fuori il parlamento, a chi teme cambiamenti che comporterebbero per sé perdite di potere. Gli ostacoli però non sono pochi, a cominciare dalla non sopita animosità di Beppe Grillo nei confronti dei vertici del Pd. E poi: ce lo vediamo un centrosinistra che depone le arroganze della politica professionistica, smette di inseguire le ricette conservatrici su un’infinità di argomenti, cede rendite di posizione pluridecennali e si sposta senza pregiudizi sul terreno di ciò che serve prima di tutto alla maggioranza dei cittadini? E ce li vediamo i movimentisti galvanizzati da Beppe Grillo passare dalla protesta senza mediazioni alla ricerca di soluzioni concrete nella stessa direzione? Dalle loro parole e dalle loro facce che piano piano stiamo cominciando a conoscere sembrerebbe di sì. Magari un po’ più difficile può apparire un ulteriore ravvedimento dell’apparato del Pd. Ma siccome è in gioco il futuro di tutti loro (oltre che di tutti noi) la speranza è l’ultima a morire.
Nel nuovo parlamento entrerà come previsto una piccola pattuglia di gay visibili. Si tratta di Sergio Lo Giudice, eletto al senato nelle liste del Pd, del suo compagno di partito Ivan Scalfarotto che prenderà posto sui banchi della camera insieme ad Alessandro Zan di Sel e del leader di Sel Nichi Vendola, che mentre scriviamo non ha ancora fatto sapere se preferirà Montecitorio alla presidenza della regione Puglia che già deteneva. Tutte persone di esperienza, alle quali spetterà certamente il compito di cercare uno spazio per le riforme che le persone glbt attendono ormai da troppo tempo. Ma l’auspicio è che il problema non venga preso a cuore solo da loro, visto e considerato l’ampio ricambio culturale e generazionale nella composizione di camera e senato. Perché la qualità del vivere civile e delle norme che lo garantiscono riguardano naturalmente tutte e tutti.