Il regista taiwanese Tsai Ming-liang è tornato quest’anno alla Mostra del cinema di Venezia e Pride ne ha volentieri approfittato per intervistarlo. Il bacio gay e la furibonda masturbazione nel suo Vive l’amour (Leone d’oro nel 1994) avevano fatto balzare dalla poltrona il presidente di Taiwan e tutti i ministri all’anteprima del film (di cui però non ostacolarono l’uscita in patria). Il triangolo tra un venditore di loculi per urne cinerarie, un ambulante e un’agente immobiliare ha lasciato comunque il segno e da quel momento per lui si sono spalancate le porte dei principali festival europei come Cannes e Berlino dove ha raccolto una messe di premi.
Sesso, corpo, acqua, senso della perdita sono le costanti del suo lavoro. Sul tema dell’omosessualità è tornato più volte: dall’incesto tra padre e figlio nella sauna gay di The River al cinema in dismissione di Taipei dove gli spettatori sono più calamitati dal via vai nei bagni che dal film di arti marziali in Goodbye Dragon Inn (“È un film sulla scomparsa e quella della sala che sta per essere demolita è una metafora sul cambiamento della società e la dissipazione della cultura e dei luoghi storici”). In The Wayward Cloud (Il gusto dell’anguria) racconta invece – con fellatio finale al cardiopalmo – di un gruppo di attori porno, uno dei quali è travestito da enorme fallo.
Tsai Ming-liang (classe 1957, nato in un villaggio della Malesia e trasferitosi a 20 anni a Taiwan) ha trovato il suo attore feticcio in Lee Kang-sheng, ora prossimo ai 40 anni, che da Vive l’amour in poi è il protagonista assoluto di tutti i suoi film, abita nella sua casa e lo accompagna ovunque. Superfluo precisare che nessun giornalista occidentale (quelli orientali neppure ci provano) è mai riuscito a strappare al regista un atteso coming out. Lo incontriamo, scortato dal suo sodale, alla Mostra del Cinema di Venezia dove ha presentato il documentario Diamond Sutra, terzo tassello di un originale esperimento a metà tra cinema e arti visive sulla lenta camminata di Lee Kang-shen nelle vesti di un monaco buddista. Le prime due parti hanno per titolo No Form e Walker, la quarta (Sleepwalk) è in visione alla Biennale Architettura presso il padiglione di Taiwan (Palazzo delle Prigioni – Riva degli Schiavoni) sino al 25 novembre.
Come è nato questo progetto a metà tra cinema e installazione artistica?
Anni fa volevo fare un film sul monaco cinese Xuanzhuang, un avventuriero che non esitò a attraversare da solo il deserto per procurarsi i sutra buddisti originali dall’India. Non lo realizzai ma lo stesso spunto mi ha ispirato per una pièce al teatro Nazionale di Taipei in cui l’attore Lee Kang-sheng camminava molto lentamente misurando il palcoscenico per 20 minuti: non c’era trama, né rumore, parole, azioni o pensiero. Quello che esisteva e riempiva il teatro era soltanto il tempo che passava lento e un senso di esistenza mai percepito prima. Come il monaco, non possiamo sapere cosa ci aspetta oltre il deserto. L’idea l’ho poi ripresa per lo spot di un cellulare e in seguito si è manifestato l’interesse da parte di centri d’arte a Taiwan, in Cina ed Europa. Prevedo di ultimarlo in 5 anni e vorrei fosse ospitato in un museo. Alla base c’è l’avversione a uno sviluppo troppo frenetico: tutti inseguono una vita veloce e non ci si ferma a riflettere, dimenticandosi di come vivere seriamente. È al tempo stesso un esperimento cinematografico e una prova nei confronti dello spettatore.
Ha spesso dichiarato che nei suoi film molto più importante della trama o dell’azione è il linguaggio del corpo: cosa ci trasmette?
Il corpo rappresenta la bellezza assoluta. Il cinema di oggi ci ha abituato a seguire delle vicende, ma è molto più importante vedere come il corpo si muove nello spazio e ne prende possesso, facendo ricordare al pubblico cose che spesso dimentica come la durata reale della vita. Con meno storia e meno rumore abbiamo modo di osservare meglio la realtà.
I temi ricorrenti che lei privilegia sono la solitudine urbana, le passioni non corrisposte, i desideri sessuali inappagati o realizzati fugacemente in clandestinità: perché tanto pessimismo?
Non si tratta affatto di pessimismo. Questo tipo di solitudine esiste in ognuno di noi: invito semplicemente lo spettatore a riflettere su questa condizione. Tutti viviamo a fianco di altri ma siamo intimamente soli e i miei personaggi non sono esagerati o stereotipati. Il fine principale del mio cinema è perseguire la verità e non c’è nulla di più vero di quando un individuo si trova da solo. In quel momento non deve recitare per nessuno: fa semplicemente ciò che vuole, riscoprendo il suo vero sé. Io, per esempio, mi sento alla grande quando faccio pipì: sono completamente solo e non ho bisogno di fingere o mistificare. Contesto la nozione che la solitudine equivalga a uno stato depressivo: è un concetto che viene istillato da questa società. Stare soli non significa essere solitari: la solitudine può essere anche una condizione molto felice e solo comprendendola possiamo liberare la mente.
Neppure l’amore può sollevarci?
Le parole d’amore non possono risolvere i nostri problemi: amore è solo una parola e per me significa donare senza chiedere nulla in cambio. La persona che ami non è quella con cui fai sesso ma quella con la quale dormi la notte. Spesso le relazioni interpersonali vanno oltre l’amore: quando si è giovani si pensa sia l’unica cosa importante, ma poi crescendo scopriamo che in un rapporto ci sono tante cose altrettanto essenziali.
Un’altra parola chiave è “sesso”: nei suoi film appare casuale, rapido e inappagante, specie nei rapporti omosessuali quando non è del tutto represso o frustrato…
Il sesso è, con la solitudine, il momento in cui le persone mostrano la loro vera natura. I film commerciali e soprattutto quelli americani enfatizzano troppo il sesso. Secondo loro è paradisiaco e meraviglioso. Veicolano però un messaggio sbagliato: nel quotidiano il sesso è una cosa molto normale, assai diversa da come appare in quelle pellicole. Nelle mie lo affronto in modo pragmatico: talvolta gli attori mi chiedono se devono spingersi agli estremi nel girare una scena e la mia risposta è sì. Le scene di sesso tra i miei personaggi sono sempre tristi, goffe o imbarazzanti perché non si conoscono, non importa nulla all’uno dell’altro e fanno sesso senza amore. È un tema che interessa la nostra società perché in Cina non abbiamo mai fatto lo sforzo di capirlo veramente. Il mio intento è quello di esplicitare la verità nelle relazioni umane e il fallimento del desiderio erotico che prende forma nello spazio urbano contemporaneo.
Sappiamo che il cinema europeo, in particolare Truffaut e Fassbinder, ha avuto notevole peso nella sua formazione di cineasta. È diverso il suo – e più in generale quello del cinema asiatico – approccio al tema dell’omosessualità rispetto a quello dei registi europei?
Nei miei film voglio mostrare solo quello che penso, al di fuori da ogni manierismo. Non li giro per compiacere i mercati asiatici o quelli europei. Per me la cosa più importante è l’essere naturale, sia che si parli di omo o eterosessualità. Non voglio sottolineare o classificare: ogni gruppo sociale ha i suoi problemi. A me interessa osservare in particolare i comportamenti delle persone poste ai margini (anziani, disabili, omosessuali, prostitute), sottoposte al gioco del destino e che sono alla ricerca di qualcosa che non c’è. Non fingo di avere un gran cuore auspicando per loro riforme sociali. Veder rappresentata solo una parte della società come possono essere gay e lesbiche alla fine può stancare lo spettatore. Chi crea un film come un’opera d’arte deve avere più sensibilità di coloro le cui vicende intende raccontare. Non apprezzo il lavoro di quei registi che usano queste tematiche facendole diventare prodotti di consumo sfruttando la diversità. Non vedo alcuna differenza tra etero e omosessualità: per me sono ambedue del tutto normali.
Come si è avvicinato al dramma dell’Aids girando nel ’97 il documentario My New Friends?
Per rispondere devo tornare al tema del corpo: esso ha proprietà sia interne che esterne. Secondo me la persona che si ammala oggi non esplora le sue realtà interne. Ad esempio nel film The River ho trattato l’argomento della malattia rifacendomi a quanto era capitato a Lee Kang-sheng. Cadde malato e stette male per nove mesi: per la prima volta ho focalizzato la relazione tra psiche e malattia. Ho capito che sì era ammalato non essendo in grado di adattarsi al cambiamento avvenuto nella sua vita: da commesso in un salone di videogiochi si era ritrovato all’improvviso attore. Dobbiamo avere il coraggio di affrontare anche gli angoli bui della nostra mente. Al momento però non penso a questa grave malattia: ora è più importante per me affrontare il tema della morte.
I nostri media non si occupano molto di Taiwan: in quale condizione vivono le persone glbt nella società?
Taiwan è una repubblica in teoria indipendente, ma la Cina ha sempre un occhio vigile su di noi. È un momento in cui la società si dimostra piuttosto aperta. Infatti, dopo anni di lotte per la conquista dei diritti civili, in questi mesi si sta discutendo una proposta legislativa per rendere legale il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Da quasi vent’anni il protagonista dei suoi film è sempre Lee Kang-sheng: come sì è evoluto il vostro percorso di lavoro e di vita?
La mia vita privata è più serena dei miei film. Con tutti i miei collaboratori instauro rapporti d’affetto e si diventa come una famiglia allargata, ma assecondando il mio concetto di famiglia, con le distanze che devono essere ben definite. Nel corso del tempo io e Lee siamo diventati grandi amici…