“Noi esistevamo prima della corrente elettrica e indipendentemente dalla corrente elettrica esistiamo ed esisteremo ancora”.
Questa battuta del femminiello Europa, interpretato da Enzo Moscato nel film di qualche anno fa Mater Natura, condensa egregiamente il senso dell’esperienza trans. Nel 1966 Benjamin pubblica Il fenomeno transessuale e in quel momento nasce il transessualismo per come lo intendiamo oggi, nel nostro occidente positivista. Ma è indubbio che le persone trans esistessero anche prima, magari con altri nomi, in altre forme (pensiamo ai femminielli napoletani appunto).
Noi però siamo nati/e in quel laboratorio alla fine degli anni Sessanta e da quel laboratorio non ne siamo più usciti/e. Alla nostra ricerca di genere è stata data una soluzione prettamente medica, attraverso ormoni e interventi chirurgici e se da un lato questo ci ha reso possibile vivere una vita soddisfacente, dall’altro ci ha reso patologici.
Per uscire da questa definizione le persone trans stanno conducendo da diversi anni la campagna Stp2012 (www.stp2012.info) che si propone di far depennare il transessualismo dal Dsm, il manuale statistico diagnostico delle malattie mentali, perché a tutt’oggi le persone transessuali sono considerate affette da patologie psichiatriche. La campagna è internazionale, conta più di 300 gruppi e reti in tutti i continenti. Dal 2007 convoca il 22 ottobre la giornata di azione per la depatologizzazione che negli anni ha visto crescere l’adesione in tutto il mondo: nell’ultimo anno hanno aderito 70 città da 32 paesi.
Il discorso sulla depatologizzazione è molto complesso e investe molti aspetti. Il 31 marzo scorso si è svolto a Torino il convegno “Chi ha paura della depatologizzazione?” (www.mauriceglbt.org) che ha messo a confronto saperi medici, giuridici, psicologici, storici, filosofici, per cercare di affrontare questa complessità. Quando si parla di trans l’unica certezza è che non ci sono certezze perchè l’esperienza trans è così particolare e diversificata da sembrare inafferrabile, specie per chi non la vive in prima persona, ma spesso anche per chi transessuale lo è!
Depatologizzare il transessualismo non è solo un dovere scientifico – non si spiega un disturbo mentale che viene curato con un intervento chirurgico – ma è soprattutto una questione di diritti umani. Thomas Hammarberg, Commissario del consiglio d’Europa per i diritti umani, ha chiaramente detto in un rapporto ufficiale che “queste classificazioni possono divenire un ostacolo per le persone transgender nel godere appieno dei diritti umani”.
Alla depatologizzazione però molte persone trans, e non solo, pongono sostanzialmente un problema: che fine fa la gratuità dei trattamenti se il transessualismo non viene più considerato malattia? In realtà esistono delle condizioni che, pur non essendo patologiche, garantiscono cure mediche a carico del sistema sanitario nazionale. La più famosa è la gravidanza. Una donna gravida non è malata ma ha diritto all’assistenza. È una bella sfida nel nostro paese riuscire a far passare l’idea che una persona trans ha gli stessi diritti di una donna incinta.
Bisognerebbe spostare il punto di vista sulle persone trans dal discorso medico a uno più culturale. Togliere alla classe medica (psicologi, psichiatri, medici e chirurghi) quel potere smisurato che ha sulla vita delle persone trans. Per poter essere se stessi, per accedere al percorso di transizione, ci vuole qualcuno che dia il benestare, che decida se sei veramente trans, se devi prendere ormoni, se ti devi operare ecc… e allora una domanda mi nasce spontanea: che fine fa l’autodeterminazione? Perché non ho diritto di disporre del mio corpo e di modificarlo secondo il mio sentire? Queste domande sottendono discorsi che esulano dalla questione trans e investono chiunque, perché chiunque ha diritto di decidere cosa è meglio per sé.
Quando il 17 maggio del 1990 l’organizzazione mondiale della sanità cancellò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali fu una grande vittoria per tutte le persone gay e lesbiche perché si stabiliva un principio fondamentale: l’omosessualità è una variante della sessualità umana e non una patologia. Oggi ci ritroviamo a lottare perché anche il transgenderismo sia considerato una variante del genere, un sabotaggio dei binari maschio-femmina, un’esperienza che non può essere considerata un disturbo. Non siamo distrurbati/e, semmai disturbanti. E questo è il grosso problema…