Il contesto stride un po’ col tono accorato della richiesta d’aiuto: in mezzo agli abituali frequentatori del genere “maschile cerca maschile” e “palestrato bello e impossibile” della chat dove l’ho scovato, GayRomeo, il venticinquenne Taher (il nome è di fantasia, per paura di essere riconosciuto) mi implora di salvarlo dal suo presidente Bashar al Assad, che da più di un anno reprime con bombe e carri armati il dissenso dei cittadini siriani.
La Siria è l’unico paese coinvolto dalle rivolte in Nord Africa e Medio Oriente dove una risoluzione del conflitto, ormai sfociato in guerra civile, sembra ancora lontana. “Non voglio morire qui! Purtroppo non c’è nessuna ambasciata che accetti di farmi avere un visto per fuggire in qualche stato europeo e chiedere asilo”. Poi Taher confessa di aver paura di presentarsi all’ambasciata come omosessuale, perché c’è sempre la possibilità della delazione in un paese dove la polizia segreta rapisce spesso gay e lesbiche non allineati al regime, e in ogni caso è ancora in vigore la pena fino a tre anni per “ogni relazione sessuale non naturale”. Ma viene punita anche ogni forma di visibilità: “Ho saputo che l’anno scorso, in una grande casa di Damasco, durante una festa organizzata da alcuni ragazzi gay è arrivata la polizia e ha arrestato tutti i partecipanti”, racconta Taher. “Sono rimasti in prigione per quattro mesi e so che in seguito solo uno di loro è riuscito a farsi accogliere come rifugiato ad Amsterdam”. Succede anche che molti gay si lascino attirare in trappola dai servizi segreti sulle chat, “quando cercano degli ‘uomini etero’ per fare sesso: vanno all’appuntamento e ci trovano un poliziotto, vengono arrestati e intimiditi, poi i militari girano dei filmati con le umiliazioni alle quali vengono sottoposti questi ragazzi e li diffondono nelle città dove vivono per screditarli. Io non so che fine fanno, dopo…”.
Come succede a molti degli omosessuali di quelle latitudini costretti a nascondersi a causa di una repressione sociale feroce, per i gay siriani la Rete e i social network sono l’unica finestra sul resto del mondo. Che però non sembra molto interessato al loro destino, a giudicare dal vicolo cieco nel quale s’è infilato il Consiglio di sicurezza dell’Onu, il 31 gennaio scorso, quando si è visto bocciare un piano di intervento umanitario – voluto anche dalla Lega araba – dai veti incrociati di Cina e Russia.
Pechino e Mosca sono fermamente contrari all’ingerenza dei paesi occidentali in quell’area strategica del Medio Oriente, anche per la vicinanza di un altro alleato di ferro della Siria, l’Iran, già minacciato da un probabile attacco israeliano. A fare le spese delle più oscene strategie geopolitiche sono i cittadini inermi, senza che siano necessariamente dei rivoltosi: in gennaio l’Onu ha calcolato più di cinquemila vittime siriane della barbarie di Assad, ma il divieto totale d’ingresso ai reporter da parte del regime rende difficile ogni verifica.
A più di un anno di distanza dall’inizio della Primavera araba, il bilancio che i cittadini omosessuali di Tunisia, Egitto, Libia e Siria possono trarre dalle sommosse popolari è tutt’altro che incoraggiante. Il buonsenso dice che per depurarsi da decenni di tirannia qualsiasi società ha bisogno di parecchi anni: occorre costruire quasi dal niente istituzioni abituate ai complicati equilibrismi della democrazia. Gli uomini gay che ho stanato negli anfratti del web per scrivere questo articolo si dichiarano però, tra mille comprensibili reticenze, piuttosto scettici sul progresso delle loro condizioni di vita con l’arrivo di nuovi governanti, che di solito sono espressione dei partiti islamici più omofobi e machisti, tenuti a freno al tempo delle dittature col tacito assenso delle cancellerie europee.
“Dubito che in Tunisia si troverà mai un gruppo di persone che oserebbe fondare un’associazione omosessuale”, mi spiega diffidente Latif, 54 anni, sposato e con due figli ventenni nonostante si dichiari gay. “Non c’entra il governo attuale o quello appena rovesciato di Ben Ali. L’omosessualità qui è semplicemente un tabù inestirpabile”. Eppure, una specie di associazione gay è stata comunque creata in Tunisia, all’indomani della Rivoluzione dei Gelsomini: si tratta della rivista Gayday magazine, unico esperimento nel paese di pubblicazione glbt cartacea e online (www.gaydaymagazine.wordpress.com), nata nel marzo dello scorso anno e responsabile suo malgrado di aver parecchio vivacizzato il già turbolento dibattito politico del dopo-Ben Ali, all’indomani della vittoria con maggioranza relativa del partito islamico moderato Ennahda.
Grazie a quella rivista il ministro dei diritti umani Samir Dilou, durante un’intervista televisiva, ha svelato le intenzioni del nuovo governo in ambito glbt: brandendo un numero di Gayday, alla cui esistenza s’è detto assolutamente contrario, Dilou ha infatti ammesso che “i gay sono cittadini di questo paese, ma devono accettare i limiti imposti dalla religione e dalla tradizione”, ribadendo poi che l’omosessualità è una perversione da trattare con terapia medica. Poche settimane prima il responsabile degli Interni Ali Larayedh era capitato al centro di uno scandalo quando sul web è spuntato un filmato dove si vede il neo-ministro impegnato in un rapporto sessuale con un compagno di cella, durante il suo soggiorno nelle carceri di Ben Ali all’inizio degli anni Novanta. Come non bastasse, il fratello dell’attuale ministro della giustizia è stato scarcerato con un’amnistia presidenziale prima di scontare la pena che l’aveva portato in prigione con l’accusa di aver stuprato un ragazzo. Ci vuol poco a capire che di omosessualità s’è parlato molto, nelle stanze del nuovo potere tunisino, ma solo come arma di ricatto reciproco tra le forze politiche, senza nessuna reale intenzione di migliorare la situazione dei cittadini gay, lesbiche e trans, ancora sottoposti alla legge locale che punisce col carcere fino a tre anni i rapporti omosessuali. Per di più, durante la marcia per la libertà di espressione che si è tenuta nella capitale tunisina il 28 gennaio, i pochi omosessuali visibili con striscioni e slogan sono stati allontanati malamente dal corteo da un gruppo di manifestanti di sinistra e poi aggrediti con insulti.
Il direttore di Gayday, Fadi, è stato minacciato di morte e due giorni dopo la manifestazione uno dei leader dell’opposizione ha postato su Facebook una serie di attacchi omofobi al giornale sotto il titolo “Una rivista per froci è stata pubblicata in Tunisia”, ricevendo centinaia di commenti del tipo “Cada su di loro la maledizione di Dio!”; “Abbiamo una democrazia eccessiva e ridicola. Siamo un paese musulmano, una rivista come questa è intollerabile”; “Questo è quello che succede quando si dà retta agli attivisti per la libertà: in nome della libertà di espressione ora abbiamo perversione e adulterio!”.
Il nostro Latif ricorda che ai tempi di Ben Ali “i siti di social networking gay e lesbici erano bloccati. Adesso, per lo meno, tutti questi siti sono aperti e disponibili, però è di norma iscriversi con uno pseudonimo per evitare di essere riconosciuti”. Non ci sono solo gravi problemi di diritti, nella nuova Tunisia liberata: la crisi economica ha costretto molti giovani a lasciare le coste del piccolo paese nordafricano già prima del cambio di regime. Latif è sicuro che anche “molti gay tunisini che un tempo si prostituivano con i ricchi turisti europei, ora emigrano in Europa, soprattutto in Italia, per continuare a vendersi direttamente in loco”.
Dopo l’euforia seguita alla cacciata di Mubarak, in Egitto il movimento di Piazza Tahrir s’è risvegliato con un Consiglio supremo delle forze armate se possibile ancora più spietato del vecchio satrapo nel reprimere le manifestazioni di protesta causate dalla lentezza con la quale il governo mette in pratica le riforme promesse. Gli egiziani hanno votato alle complicatissime elezioni parlamentari in tre turni, dal dicembre 2011 al febbraio scorso, decretando l’affermazione del partito dei Fratelli musulmani con il 45% dei voti, seguito dal 20% del partito Al-Nour dei salafiti, gruppo islamico estremista. A preoccupare Ash, dentista di 24 anni, non sono i partiti musulmani: “Durante il regime di Mubarak c’era un reparto della polizia incaricato di creare falsi profili nelle chat per dare appuntamento ai gay e arrestarli, spesso per torturarli. Penso che coi nuovi partiti al potere non può andare peggio di così: anche se avremo il fondamentalismo, non sarà mai come in Iran. La priorità per questi partiti è di risollevare l’economia del paese, non quella di perseguitare i gay o costringere le donne a indossare il velo”. Di diverso parere è lo studente di medicina ventunenne Babel: “Ero molto speranzoso che noi gay avremmo ottenuto dei diritti, all’indomani della rivoluzione. Io ho votato per un partito liberale, ma dopo la vittoria dei musulmani ho paura che i salafiti metteranno la pena di morte per gli omosessuali. L’Egitto è il più grande e popoloso paese del mondo arabo, siamo più di 80 milioni e la maggior parte della gente è poco istruita: per questo le tradizioni religiose più arcaiche cercano di prevalere”. Sami, 27 anni, è convinto che tutto questo timore dei partiti islamici sia esagerato. “Voi europei sbagliate a descriverli come estremisti: in Germania c’è un partito di ispirazione cristiana, la Cdu, e nessuno si scompone più di tanto”. L’Egitto non ha una specifica legge antigay: della repressione si incarica uno stigma sociale ancora molto forte. “Molti dei miei amici gay hanno partecipato agli scontri per cacciare Mubarak”, racconta Mansur, 26 anni. “Combattevano fianco a fianco degli altri, ma senza dire nulla della propria sessualità, altrimenti sarebbero stati emarginati”. Come a dire: finalmente i manifestanti gay di Piazza Tahrir hanno le stesse probabilità di tutti gli altri di farsi sparare addosso dai militari, se se ne stanno zitti…
La Libia senza Gheddafi è ora guidata da un Consiglio nazionale di transizione particolarmente litigioso, che dovrà ricostruire un paese azzerato dalla dittatura e dai bombardamenti della Nato per traghettarlo verso libere elezioni, superando anche la frammentazione in decine di fazioni e tribù diverse. Yasser, 28 anni, è piuttosto pessimista: “Ai tempi di Gheddafi c’era poca attenzione verso gli omosessuali. Temo che se vinceranno gli integralisti islamici ce la vedremo brutta. Noi gay non siamo mai stati peggio di adesso!”. Il trentaseienne Tarek, invece, non teme l’integralismo religioso: “I libici non sono di indole aggressiva, quindi penso che nemmeno i partiti islamici lo saranno con noi. Credo però che dovremo continuare a nasconderci, non ci sarà un cambiamento a breve. Nessuno sa di me in famiglia, tranne qualche amico, e come al solito ci incontriamo con discrezione accordandoci al telefono o via internet. Di una cosa però sono contento: che questa guerra ha fatto riconoscere ai paesi occidentali il tragico errore di aver appoggiato per anni delle dittature terribili”.
Nel frattempo il giovane Tahir, dalla sua reclusione di Damasco, il luccicante occidente può solo sognarlo come meta della sua fuga salvifica dalla folle strategia della famiglia Assad. “La mia vita in questi giorni è fare niente, dalla mattina alla sera: non ho un lavoro perché non conosco nessuno nel governo, visto che sono cristiano, e nessuno ti dà lavoro se vede che sei effeminato come me. Sto facendo del mio meglio per apparire virile, non è facile essere ciò che non si è. In famiglia non sanno che sono gay: se lo sapessero perderei l’amore dei miei genitori perché da noi avere un figlio gay è una vergogna troppo grande da sopportare. Fra poco i miei amici andranno a studiare all’estero e ho paura di rimanere completamente solo. Per questo vorrei venire in Europa, lì avete rispetto per la vita umana. Ho paura di Assad e di quello che succederà in Siria, la situazione economica è così difficile che ci vorranno anni per rimetterci in sesto! Ma io non voglio sprecare la mia giovinezza senza fare nulla”.
Mi congedo da Tahir con un vago senso di colpa per aver carpito le sue confidenze senza riuscire davvero a fare qualcosa per tirarlo fuori da quel paese in disfacimento. Posso concludere con un’unica convinzione: se un vento di libertà è soffiato sul Nord Africa e sul Medio Oriente nel 2011, certamente ha mancato di far garrire le bandiere rainbow locali, che giacciono ancora inanimate. In attesa di tempi migliori.