Dei loro nomi conosciamo solo le iniziali, ammesso che siano vere: M.T., T.T. e M.Ch. Erano tre uomini di età indefinita che sono stati giustiziati per impiccagione in Iran lo scorso settembre a causa della loro omosessualità; il fatto che nemmeno da morti siano riusciti a rientrare in possesso della propria identità fa riflettere su quanta solerzia usi la Repubblica Islamica per cancellare persino nel ricordo i cittadini che non sono in linea con la sua interpretazione della legge coranica.
L’agenzia di stampa statale iraniana Isna, unica fonte della notizia, ha comunicato anche che l’esecuzione è avvenuta nella prigione di Karoun, nella città di Ahvaz e che insieme ai tre omosessuali sono stati messi a morte per reati diversi altri tre uomini, solo gli ultimi di una lunghissima lista di esecuzioni capitali eseguite dal governo iraniano negli ultimi anni, superato in questo solo dalla Cina (che però ha una popolazione di oltre venti volte superiore a quella dell’Iran): secondo Amnesty International ne ha effettuate almeno 252 nel solo 2010. Almeno sette di queste vittime, secondo informazioni che è comunque molto difficile se non impossibile verificare, erano omosessuali.
La triste novità degli omicidi di stato di settembre di cui abbiamo riferito sopra è nel fatto che sono stati presentati espressamente come l’applicazione di due specifici articoli del codice penale iraniano, il 108 e il 110, i quali puniscono con la morte ogni atto di sodomia (“lavat”) che preveda la penetrazione; le modalità di esecuzione sono poi lasciate alla macabra discrezionalità del giudice: l’impiccagione con innalzamento del condannato tramite gru negli ultimi anni va per la maggiore, ma sono previsti anche frustate e lapidazione. Tutti gli articoli dal 108 al 134 del codice penale iraniano si occupano di omosessualità, infliggendo pene che vanno dalle 60 frustate alla morte per uomini e donne colpevoli di atti sodomitici. L’articolo 123, ad esempio, dice che: “Se due uomini, estranei uno all’altro, si trovano senza motivo nudi sotto la stessa coperta, ciascuno di essi è punito con una pena fino a 99 colpi di frusta”.
Mahmood Amiry-Moghaddam, avvocato portavoce dell’Iran Human Rights, associazione con sede in Norvegia, in un’intervista al giornale britannico The Independent riconosce il precedente delle esecuzioni di settembre: “Di solito le autorità iraniane presentano questo tipo di casi come punizione per reati come lo stupro, in modo da rendere il fatto più accettabile ed evitare di attirare troppa attenzione da parte dell’opinione pubblica internazionale, ma stavolta non è stato così”. Nel 2007 il presidente iraniano Ahmadinejad, durante un intervento alle Nazioni Unite a New York, aveva suscitato l’ilarità degli studenti della Columbia University affermando che “in Iran non abbiamo omosessuali”. C’era ben poco da ridere, in realtà, perché quelle dichiarazioni avevano il preciso scopo di sopire il clamore provocato due anni prima dalla condanna a morte di due adolescenti, Mahmoud Asgari e Ayaz Marhoni, arrestati con l’accusa di aver violentato un tredicenne, frustati e giustiziati in pubblico. In quell’occasione le associazioni gay di tutto il mondo avevano censurato l’Iran per aver messo a morte due giovanissimi, ammettendo la possibilità che l’accusa di stupro fosse pretestuosa; i gruppi per i diritti umani, invece, pur riconoscendo che il regime si era servito in passato di accuse false per sbarazzarsi degli oppositori politici, biasimarono il governo per aver messo a morte due adolescenti, infrangendo così la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo ratificata anche dall’Iran. Non aiuta molto il fatto che il codice penale iraniano non faccia poi troppa distinzione tra stupro, atti di sodomia e inclinazione omosessuale, né che agli imputati siano negati un avvocato e la possibilità di testimoniare contro se stessi, cosa che avviene spesso sotto tortura.
Di recente il presidente Ahmadinejad ha rincarato la dose, sostenendo davanti a un gruppo di giornalisti americani che l’omosessualità è un “comportamento spregevole, immondo e dannoso per l’umanità”, e in varie occasioni il regime ha giustificato le condanne a morte di chi si macchia di sodomia come argine alla nefasta influenza dell’occidente sui costumi iraniani.
Fin dal 1979, anno dell’insediamento della Repubblica Islamica grazie all’ayatollah Khomeini, la teocrazia iraniana perseguita con metodo i suoi cittadini gay, lesbiche e transgender: li intimidisce, li arresta, li tortura e li mette a morte, oltre che reprimerli attraverso un pervasivo stigma sociale, motivo per il quale nemmeno le stesse famiglie di origine dei gay condannati si fanno avanti per fornire notizie precise sulle esecuzioni.
Molti gay iraniani che non finiscono in manicomio con le diagnosi più disparate decidono di espatriare in cerca di asilo politico. Molti altri fanno una scelta dolorosa e decidono di sottoporsi alla procedura del cambio di sesso: si è deciso infatti, dopo lungo dibattito, che la sharia permette gli interventi chirurgici per le persone transessuali, il ha prodotto su questo punto una legislazione all’avanguardia per i paesi islamici. Inutile dire che però, così facendo, gli omosessuali maschi che non avvertono alcuna “disforia di genere” conquistano sì la possibilità di amare altri uomini alla luce del sole, ma ottengono in cambio effetti devastanti sulla loro integrità psichica: lo testimonia l’aumento esponenziale dei suicidi di queste persone, come racconta il documentario Be Like Others diretto dalla regista Tanaz Eshaghian.