Sono innumerevoli le biografie di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, uno di quegli artisti “maledetti”, come Van Gogh, la cui arte si fonde inestricabilmente con una vita affascinante quanto turbolenta. Non a caso più volte ha attratto anche il cinema, con Caravaggio, il pittore maledetto di Goffredo Alessandrini (1941) e soprattutto con l’ottimo Caravaggio di Derek Jarman (1986).
La biografia di Graham-Dixon (Caravaggio. Vita sacra e profana. Mondadori, pp. 450 € 25) ha però qualcosa in più, oltre a essere una lettura avvincente, nonostante la ponderosità. Innanzitutto ci sono tutte le sorprendenti novità sul pittore venute a galla negli ultimi anni, ossia da quando degli studiosi si sono messi alla ricerca di materiale nelle curie, negli archivi (soprattutto della polizia) e nei tribunali: si va da un foglio autografo a testimonianze varie su di lui fino all’atto di battesimo, che ha rivelato come sia nato a Milano (e non a Caravaggio) e nel 1571, due anni prima di quanto si credesse. Peccato solo che lo studioso inglese non abbia fatto in tempo a inserire anche il quasi sicuro ritrovamento delle ossa dell’artista a Porto Ercole, riconosciute grazie al dna e a elaborate analisi.
Corredato da numerose tavole a colori, il libro dà giustamente spazio ai dipinti di Caravaggio, fondati su due caratteristiche incredibilmente rivoluzionarie per l’epoca: l’esasperato realismo e il marcato contrasto luce/ombra. Il realismo apparve da subito eccessivo, tanto che alcune opere furono rifiutate dal committente; è il caso de La morte della vergine – in cui dette fastidio che il corpo della Madonna fosse giallo, gonfio e fosse stato ispirato da una prostituta, forse annegata nel Tevere – o il San Matteo e l’angelo, in cui sembra che quest’ultimo insegni a scrivere al santo, rugoso, umile e dai piedi sporchi. In questa maniera il pittore lombardo raggiunse una religiosità autentica e commovente, fatta da poveri uomini, straziati dal difficile mestiere del vivere. Cosa però inaccettabile per una chiesa che cercava, dopo il concilio di Trento, di mostrare la sacralità in termini ben più eleganti e suadenti.
Ugualmente, il rapporto luce/ombra fu una trovata originale di Caravaggio, il quale fu un autodidatta: dipingeva direttamente, senza disegni di base e con pochi ripensamenti, in stanze dalle pareti nere, con le fonti di luce (torce e candele) che illuminavano in maniera radente e densa solo parte del corpo dei personaggi. Questi sembrano dunque uscire a fatica dallo sfondo scuro, mentre lo spettatore può vedere solo ciò che il pittore vuole: essi sono dunque immersi in un buio. Questo è leggibile da un lato come il peccato – con la grazia divina che colpisce gli uomini direttamente, senza l’ausilio della chiesa, anche mentre stanno peccando – dall’altro come l’ignoranza dell’uomo, uscito con le ossa rotte dalle promesse non mantenute del Rinascimento e dal sopravvenire della nuova concezione eliocentrica del mondo, che condannava l’uomo, invece che al centro dell’universo, a essere un minuscolo bruscolo in un universo ormai infinito invece che al centro dell’universo.
Graham-Dixon ricompone efficacemente il quadro di una Roma papalina del primo Seicento, pulsante ma squassata dalla violenza, dagli intrecci politici e dallo stridente divario fra ricchezza e povertà. Di carattere impulsivo e sanguigno, Caravaggio ne fu un protagonista assoluto sin da quando vi si trasferì a ventun’anni dalla Lombardia. Con gli amici Mario Minniti, Onorio Longhi e Orazio Gentileschi formò infatti una banda ribelle, arrogante, attaccabrighe e irreligiosa: amante delle taverne, del gioco a dadi e a carte, del sesso con prostitute, della burla e dello scandalo nonché delle risse (come la deturpatio, che consisteva nel fare casino sotto casa di una persona, rompendo a sassate i vetri e scrivendo scritte oscene). Numerosi furono gli scontri fisici con altre bande della città, in cui talora Caravaggio ebbe la peggio, mentre altre volte ferì o sfregiò i suoi avversari.
Fu proprio grazie a un episodio tremendo – l’uccisione di Ranuccio Tomassoni durante una rissa, probabilmente prefissata dalle due bande – che Caravaggio fu costretto a fuggire da Roma, inseguito dalle guardie papaline. Passando per Napoli, giunse a Malta. Qui visse qualche mese sereno, onorato dal titolo di cavaliere dell’ordine di Malta; ma poi ne combinò una delle sue (forse un alterco) e fu imprigionato. Riuscito a fuggire da una prigione inespugnabile, sbarcò in Sicilia e poi si diresse a Napoli. Pensando forse di aver ricevuto la grazia papalina, si imbarcò alla volta di Roma ma morì, in condizioni non del tutto chiare, sulla spiaggia di Porto Ercole, in Toscana, forse per i postumi di alcune ferite o per febbri malariche. Era il 18 luglio 1610.
Caravaggio visse dunque con impeto, pagando sempre in prima persona le proprie scelte e i contrasti esistenti fra la creazione artistica, la vita pubblica e quella privata. Nel libro non si fa mistero, del resto oggi è cosa ormai nota, come passasse con naturalezza da braccia femminili a maschili, in una sorta di onnisessualità. Così, nei suoi dipinti possiamo riconoscere alcune prostitute, come Fillide o Lena, nonché molti ragazzi presi dalla strada, spesso suoi amanti, dai tratti volgarotti e magari un po’ mascalzoni.
Il più famoso di questi fu Cecco, ossia Francesco Boneri – a sua volta poi pittore non banale – il quale fu definito la “bardassa” (termine turco che indica un amante passivo) del pittore. I due convissero per molti anni, senza farsi problemi, almeno fino al primo soggiorno a Napoli. Cecco fu il modello preferito per molti dipinti (tra cui gli unici due nudi integrali) come Il sacrificio di Isacco (Uffizi, 1603), David con la testa di Golia (1606, Galleria Borghese) e soprattutto Omnia vincit Amor (1602, Berlino), probabilmente il più osceno quadro di tutta la pittura italiana, in cui posò probabilmente dodicenne. A proposito di quest’ultimo, nel 1650 lo scrittore Richard Symonds sentì riferire dalla sua guida romana una tiritera che terminava così: “Era il corpo e faccia/ del suo ragazzo o servitore/ che giaceva con lui”.
Il dipinto è una tela allegorica, che ricorda come l’amore vinca su ogni altra arte; in una struttura elaborata – in cui viene ripetuta tante volte la lettera “V” (omaggio al committente Vincenzo Giustiniani) – un ragazzino, dalla sgraziata bellezza e dal sorriso beffardo, si offre nudo e a gambe divaricate allo spettatore. Qualcuno (Germaine Greer) vi ha voluto addirittura leggere un fanciullo che si allontana da un adulto dopo un rapporto anale, ma è comunque innegabile la carica erotica del protagonista, ventre e membro nudo, che tiene in mano dei dardi fallici.
L’omosessualità di Caravaggio non si fermò a Cecco o a Giovan Battista, un’altra bardassa. Graham-Dixon ricorda due episodi intriganti. Il primo è quando nel 1609 a Messina fu catturato dalla bellezza di un gruppo di scolari adolescenti, cosa che indispettì il loro maestro. L’altro è quando, nell’autunno di quell’anno, frequentò a Napoli l’osteria del Cerriglio, un luogo dove il vino scorreva più abbondante dell’acqua e, soprattutto, dove notoriamente si svolgevano orge fra uomini, in stanze appartate in cui si entrava da una porta retrostante dissimulata. La sua frequentazione del luogo (e l’interesse che ne conseguiva) era evidentemente ben conosciuta, se una volta alcuni sicari lo aspettarono fuori, sfregiandolo e lasciandolo in fin di vita.
Caravaggio dunque visse apertamente la sua omosessualità, per quanto questa fosse passibile di pena capitale. Fondamentale fu l’incontro nel 1595 con il Cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte, un raffinato collezionista e mecenate che probabilmente chiese al pittore non solo opere ma anche i favori del suo corpo, peraltro decisamente prestante. Il Cardinale gli dette un appoggio incondizionato: gli offrì casa sua, lo difese quando si mise nei guai e gli procurò commissioni illustri. Nello stesso tempo, gli ordinò dei dipinti con un sottotesto omoerotico, poiché Del Monte era attirato dai ragazzi, in particolare molto giovani. Attorno a lui si creò infatti una corte decisamente gay, anche con molti castrati, come il celebre Pedro de Montoja immortalato nel Suonatore di liuto (1596, Ermitage).
Di fatto, praticamente non c’è dipinto di Caravaggio che, anche narrando vicende religiose, non grondi di un’avida sensualità e di una carnosa fisicità: sia quando ci sono modelli atletici (Il martirio di San Matteo), sia con giovani dal volto angelico (Davide con la testa di Golia, 1607, Vienna) sia quando è la volta di acerbi ragazzi dalla sessualità allusiva e pungente, come il flessuoso nudo dell’Isacco salvato (1602, Roma Musei Capitolini) o lo straordinario Bacco (1598, Uffizi). Quest’ultimo (per cui posò Mario Minniti) con la sua posa languida benché impassibile sembra ammiccare allo spettatore, attratto dalla sua ambiguità, che gioca su caratteristiche maschili (muscolosità) quanto femminili (la mano dalle dita rosee che regge la coppa).
Molti furono i committenti (come il cardinale Scipione Borghese) che apprezzarono quei dipinti quasi sempre pervasi da una dissacrante licenziosità e da un malizioso omoerotismo, sottolineato dal saggista inglese: “Caravaggio poteva essere eccitato dalla presenza fisica di altri uomini. Altrimenti, non avrebbe mai potuto dipingere simili figure come le dipinse”. Si può dunque affermare che l’opera di Caravaggio sia intrisa delle intense emozioni di una vita vissuta “nec spe nec metu”, senza speranza né paura.