Nel suo ultimo film un morto vivente gay con le fattezze del pornodivo François Sagat resuscita seducenti ragazzi morti penetrandoli con un membro spropositato e irrorandoli di seme nero: ancora una volta Bruce LaBruce in LA Zombie ha usato il suo talento per spingersi ai limiti e scandalizzare il pubblico al festival di Locarno. 47 anni, canadese di Toronto, sposato con un esule cubano ex prete di santería, ha cominciato il percorso artistico come regista, girando pellicole sperimentali in super 8, e da editore, pubblicando la fanzine punk J.D.s. La passione per il cinema è stata più forte e la carriera di regista ha visto il debutto con film che i cinefili amano alla follia, sino al successo di Hustler White in cui interpreta anche il ruolo di un giornalista alle prese con le marchette (oggi escort) di Santa Monica che si professano incalliti eterosessuali e concedono porzioni del proprio corpo solo a scopo di lucro. Altre tappe miliari della sua filmografia, No Skin Off My Ass e Skin Flick, sono dedicate al controverso rapporto con l’ambiente degli skinheads.
Artista eclettico, Bruce si occupa anche di musica, scrivendone per varie riviste e collabora da giornalista con testate prestigiose come l’inglese Guardian. Invitato e coccolato al Sundance Festival, al Moma di New York, a Madrid e Berlino (dove in primavera ha diretto un Pierrot Lunaire di Schönberg con protagonista mutato in una trans, spreco di dildo e una ghigliottina a forma di glory hole), è approdato da noi per un tour che lo ha portato a Bologna, Firenze e Milano per tenere a battesimo la sua prima biografia in italiano, Bruce Xploitation, a cura di Cosimo Santoro e Giuseppe Savoca, edita da Atlantide Enterteinment. È una esaustiva e accattivante monografia che ci fa conoscere sotto diverse angolature una figura chiave della cultura glbt in costante evoluzione artistica. Lo incontriamo prima della presentazione ufficiale del libro.
Che valore ha per lei la pubblicazione di questa biografia in italiano?
Bruce Xploitation è una sorta di presentazione del mio lavoro a un pubblico più vasto e meno specialistico dal quale sono meno conosciuto, ma anche una retrospettiva sulle creazioni degli ultimi 25 anni che, per alcuni, possono sembrare bizzarre o difficili da capire. Un po’ quello che si prefigge The Advocate for Fagdom, un documentario diretto da Angélique Bosio che è stato presentato quest’anno alla Berlinale. Il volume, grazie anche al contributo di Cosimo e Giuseppe, ha il valore di un vero e proprio manuale.
Cito una sua dichiarazione: “Non sono un fottuto artista, né un poeta, un filosofo e nemmeno un rivoluzionario”. Allora chi è Bruce LaBruce?
È una battuta che ho rubato a Theresa Russel nel film di Nicolas Roeg Il lenzuolo viola. Posso dire di essere un “pornografo riluttante” (che è pure il titolo di un mio libro) e un esponente marxista del jet set. Fanno entrambi parte delle mie contraddizioni: cerco infatti di contraddirmi almeno una volta al giorno. Il mio lavoro è pieno di paradossi, perché li preferisco all’ironia. Mi piace dire cose che si contraddicono a vicenda ma rimangono comunque vere. Probabilmente devo alle mie radici punk il gusto per la provocazione, per il politically incorrect: non mi esprimo più con lo stesso stile di allora ma l’atteggiamento è rimasto identico. La cosa importante è fidarsi delle proprie intuizioni e esprimersi attraverso lo stile: affidare a quest’ultimo quello che si vuole comunicare.
La cultura punk ha rappresentato, insieme all’ambiente degli skinheads, una delle sue principali fonti d’ispirazione: perché proprio queste due linee guida?
Quando ero ragazzo, il punk era un movimento giovanile rivoluzionario da cui mi sentivo attratto: ero affascinato anche dai graffitari e dai ragazzi sugli skate board, insomma da tutto quello che riguardava i giovani, sia da un punto di vista culturale che di messa in discussione dell’autorità costituita e dello status quo. In seguito è stato assorbito dalla moda e dalla cultura pop, per finire poi quasi ridicolizzato e citato solo per gli stereotipi più dozzinali. Ricordo che quando a Toronto incontrai i primi punk, rimasi talmente scioccato, quasi avessi visto degli extraterrestri. Infatti, qualche tempo dopo, abbracciato quel look, mentre passeggiavo per strada, qualcuno mi gridò dalla finestra: “Bel taglio di capelli, ma hai sbagliato pianeta”!. Per quanto riguarda la cultura skinhead, era, soprattutto in Gran Bretagna, identificabile con il proletariato. Al suo interno spiccava un’ala neonazista molto discutibile ma a me interessava l’apparato militare (uniformi e simili) e la caratteristica della militanza in generale che mi ha sempre intrigato, compresa quella delle Pantere Nere e delle femministe: anche il movimento gay degli inizi aveva una immagine decisamente militante. Era la subcultura che sfidava la norma.
La sua fascinazione per le teste rasate appare evidente nei film No Skin Off My Ass e Skin Flick: come poteva conciliarla con la sua ideologia marxista, peraltro fustigata in The Raspberry Reich?
Avevo abbandonato il movimento gay nei primi anni Ottanta, trovandolo troppo borghese e conservatore. Col passar del tempo il punk si era appiattito quasi interamente sulla musica e aveva rivelato pulsioni omofobe molto nette, tanto che una volta, dichiarandomi gay in un club, mi presero a pugni in faccia. Rimasi disgustato dall’attacco di omofobia ma anche terribilmente eccitato sessualmente da quel misto di violenza, sottomissione/dominazione, disciplina/punizione. La stessa contraddizione presente in molti dei miei film. In Skin Flick c’è sì questo personaggio fascista che incute timore ma è anche evidente la presa di posizione politica contro di lui. Mi sono ispirato a un momento della mia vita: avevo un boyfriend che si prostituiva, dopo un anno che ci eravamo lasciati l’ho rincontrato, scoprendo che era diventato neonazista. Aveva bisogno di un posto dove stare e mi chiese ospitalità. Di nuovo ero diviso tra l’odio per quelle idee e l’attrazione per il personaggio. Cercai di farlo ragionare e mi presi una scarica di botte, cosa che mi fece finalmente decidere di buttarlo fuori di casa.
Un’altra stridente contraddizione riguarda la sua ideologia di sinistra e la ricerca ossessiva del glamour e dello stile…
Sono due aspetti da non mescolare, piuttosto da accostare: sembra un guazzabuglio ma in qualche modo funziona. All’inizio della carriera ero impegnato politicamente, facevo film underground ma avevo gusti da gay ultratradizionale: andavo pazzo per il grande cinema classico di Hollywood e adoravo Liz Taylor. Ammiravo le atmosfere sofisticate degli anni Quaranta, le sontuose scenografie, i risvolti psicanalitici, le eroine melodrammatiche dell’epoca e gli attori come Dick e William Powell. Una bella dose di glamour in più rispetto all’Hollywood di oggi. Non dimentichiamo però che anche le avanguardie punk erano assai sofisticate e che riuscivo a veicolare idee politiche anche attraverso lo stile.
È piuttosto anomalo che un regista giri due versioni dello stesso film: una soft e l’altra decisamente porno. Come lo spiega?
L’ho fatto solo tre volte. Ho cominciato con film che ritenevo al tempo stesso artistici e sessualmente espliciti come No Skin Off My Ass. Visti i miei primi lavori, i produttori della Cazzo Film di Berlino mi chiesero di dirigere dei porno veri e propri: quello fu l’ingresso nell’industria del cinema a luci rosse con relativi attori e comprimari. Per facilitarne l’accesso ai festival, consentire la proiezione nelle sale e raggiungere un pubblico più ampio, decisi di farne alcune versioni soft. Un’altra ragione è che se giri solo pellicole hard core puoi contare su un ristretto spettro di storie e personaggi qualunque sia il contenuto che vuoi trattare: il tutto si può risolvere in dieci minuti di scene di sesso, ma non puoi proporre una cosa simile allo spettatore in sala.
Otto e il recente LA Zombie ci rivelano una fascinazione per freaks, vampiri e creature mostruose: alcuni li vogliono leggere come simbologie del virus Hiv, altri come estremizzazioni del disagio adolescenziale.
È semplicemente il proseguimento dell’attrazione che nutro per gli emarginati: gli zombi rappresentano metaforicamente il nuovo sottoproletariato oppresso, i nuovi paria. Gli homeless, ad esempio, oggi possono essere massacrati per divertimento. La mia idea era quella di “umanizzare” queste creature e di trasformarle in personaggi che ricordano brandelli della loro vita terrena e hanno conservato una sorta di sensibilità o capacità intellettiva. In parte volevo raffigurare aspetti “zombi” della vita gay: quando vado di notte in un parco, un bagno pubblico o altro luogo di cruising, osservo creature sbucare dal buio in preda a una sorta di sonnambulismo o trance sessuale che sembrano divorare parti indistinte di corpi maschili. Questa non vuole essere solo una visione negativa: le trovo situazioni eccitanti e pericolose, ma intendo dire anche che molti di noi si comportano da zombi sessuali. In Otto c’è un ragazzo gay molto sensibile che si deve confrontare con un ambiente omofobo e il film mostra come lui cerca di esprimersi assumendo i caratteri di una creatura al limite della mostruosità.
Oltre ad aiutare la gente a affrancarsi dalla cultura dominante, lei sostiene che bisogna entrare in contatto con l’essenza profonda del nostro desiderio e vivere in uno stato di costante eccitazione. In casi estremi queste pulsioni arrivano, come nel suo ultimo film, alla necrofilia. Come possiamo fissare dei confini sensati?
La sessualità degli adolescenti è, ad esempio, un tabù di cui non si dovrebbe parlare e che di certo è pericolosa da esplorare: devo però precisare che il tema della pedofilia non mi attrae particolarmente. Direi che si dovrebbe fare una valutazione secondo i valori morali di ognuno di noi. I credenti terranno presente, ad esempio, i disastri e le contraddizioni della chiesa cattolica in termini di sessualità e quanto sia devastante reprimere gli istinti omosessuali. In termini di creazione artistica, dipende da come si rappresentano questi tabù: in Australia LA Zombie è stato messo al bando a causa della necrofilia, ma non è un film su questo tema. Per me è un’allegoria che rovescia il cliché secondo il quale i gay sono portatori di Aids e morte, mentre qui riportano alla vita.
Ha parlato della sua presa di distanza dal movimento gay: in anni recenti questa frattura si è ricomposta oppure rimane insanabile?
La nuova militanza omosessuale è costituita dalle persone transgender: sono loro i nuovi rivoluzionari, il segmento più interessante della cultura queer. A Berlino ho appena girato un corto dal titolo Fucking Different-Triple Acts con due transessuali al centro di una scena erotica. Se negli anni Ottanta tacciavo gay e lesbiche di conservatorismo, figuratevi ora! Sono così conservatori da aver ucciso il movimento gay. Non è più neppure scontato che un omosessuale sia di sinistra. È necessario un ripensamento radicale sulle tematiche sessuali, la struttura sociale, il concetto di monogamia e patriarcato, proprio come fu fatto agli albori del movimento che oggi ha finito col perdere il contatto con le sue radici e la vera essenza dell’omosessualità: adesso, a livello politico, non mi interessa proprio.