Un po’ di decenza. Ecco una richiesta che comincia a emergere qua e là in Europa, nelle urne e nelle piazze, nel pieno di una crisi dalla quale nessuno sa come usciremo. Un fresco antidoto all’indecenza di regole e comportamenti che rende la maggioranza dei cittadini perdente in partenza privandola di speranze e prospettive. L’hanno chiesta gli indignati spagnoli come gli elettori tedeschi, e nel nostro piccolo lo stiamo facendo anche da noi. Siamo ancora in una situazione piena di incertezze ma c’è qualche segnale di risveglio. Si capisce quantomeno sempre meglio che ci troviamo nell’occhio di un ciclone che investe gli obiettivi sociali di lungo termine e il tessuto morale collettivo. E che finora abbiamo saputo offrire a questa sfida solo risposte deboli o atteggiamenti elusivi, a qualsiasi livello. Nel macro come nel micro ci siamo limitati a vendere i gioielli di famiglia, in senso letterale e figurato, col solo apprezzabile risultato di ritrovarci più poveri in termini materiali e spirituali. Con meno soldi e meno princìpi stiamo poi scoprendo che non basta chiudere gli occhi o fissare uno schermo per cancellare la realtà. Le illusioni e i miracoli di cartapesta non funzionano mai quando servono davvero. I nodi da sciogliere sono sempre lì. E tra questi c’è la domanda di elementare giustizia posta dalle rivendicazioni glbt, tornata di attualità nelle ultime settimane con le poco edificanti vicende del confronto parlamentare sull’omofobia e con le intemperanze omofobiche che non sono mancate nel clima stressato della campagna elettorale per le amministrative. Ora noi diciamo la nostra scendendo in piazza l’11 giugno a Roma. E chiedendo per l’appunto un po’ di decenza.
Altro che scandali al sole e carnevalate osé. La questione di equità civile che ci riguarda è di tale portata, in particolare se guardiamo al contesto internazionale, da porci di diritto in prima fila tra coloro che chiedono più onestà e più democrazia come base di partenza per cercare soluzioni ai problemi generali. Roma, mosca bianca nell’Europa dei diritti, fa risaltare più di qualunque esibizione di nudità siliconate che il vero scandalo sono l’assenza di giustizia e il persistente rifiuto di concederla, con le sue vili motivazioni tutt’altro che nascoste. La politica che ci governa baratta sfacciatamente l’amoralità propria ormai fuori controllo, in tutti i campi, con l’obbligo di rispettare le apparenze da parte degli altri. E mentre i pubblici vizi crescono, lasciandoci nostro malgrado assuefatti al’evidenza, le nostre domande ottengono al massimo risposte oscene (nei contenuti e talvolta anche nella forma). Che paese è quello in cui non si riesce nemmeno a convenire sul fatto che picchiare o offendere qualcuno a causa del suo orientamento sessuale è un’attività negativa per la società che va contrastata con la forza della legge? Non stiamo parlando di matrimoni né di adozioni, ma del diritto all’incolumità fisica e mentale di persone oggettivamente svantaggiate da una cultura del pregiudizio che continua a essere alimentata ad arte da chi si ostina a negarci la qualifica di cittadini normali. Proprio secondo gli schemi del pregiudizio ci viene detto nei fatti che non essendo modelli positivi non abbiamo titolo ad alcuna tutela.
Nel frattempo noi andiamo avanti con le nostre vite e intessiamo una serie di proficue relazioni col mondo. Cresciamo, ci fidanziamo, a volte facciamo bambini, ci impegnamo. Però c’è sempre qualcuno o qualcosa pronto a ricordarci che la nostra dignitosa esistenza è una finzione che si rivela tale specialmente nei momenti che contano. In quarant’anni di battaglie abbiamo ottenuto moltissimo sul piano dell’accettazione sociale e praticamente nulla su quello del riconoscimento legale. Eravamo e siamo fantasmi che possono pure turbare qualche sonno ma sono destinati a svanire all’alba. Per trasformarci ufficilamente in esseri di carne e ossa molte cose devono cambiare. L’Europride sarà un’occasione per ribadirlo, e ci auguriamo che non sia la sola in questo periodo.
Perché è importante essere in tanti? Perché ci troviamo di fronte a una diga che può essere superata solo facendone traboccare l’acqua. Chi si oppone ai nostri diritti è sempre meno in condizioni di argomentare le proprie ragioni e pertanto si limita a sigillare le orecchie e a strillare più che può. Non possiamo sperare di farci ascoltare da chi non vuole, ma possiamo inviare a chi può sentirci (e sono sempre di più) un messaggio forte e chiaro. Le cronache degli ultimi mesi e settimane dimostrano ancora una volta che intorno a noi il consenso cresce, malgrado gli ostacoli che i professionisti dell’omofobia e i loro alleati di comodo cercano di frapporre. Certo non c’è più il clima da scontro finale di un tempo, perché oggi l’obiettivo degli avversari, scottati dalle passate esperienze, è di non concedere bonus pubblicitari. Si sta tuttavia solidificando in modo sempre più evidente un senso comune per il quale il problema è l’omofobia e non l’omosessualità, come diciamo noi da sempre e come ha affermato di recente senza ambiguità il presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Tutto procede con lentezza esasperante e ritardo umiliante rispetto alla situazione dei nostri principali partner europei, ma si rafforza la certezza che un giorno non lontano questo punto di vista sarà in grado di determinare le scelte politiche, oltre ai comportamenti sociali. La diga del pregiudizio regge ancora, ma gli scricchiolii si fanno sempre più sinistri e frequenti. Un altro colpettino aiuterà certamente. E speriamo che sia quello buono.