A volte accade che il clamore relativo a un disco più che valido prodotto altrove non sia in grado di oltrepassare le Alpi, nemmeno ai tempi di internet. Può anche accadere che qualche amico ce lo segnali, ma in quel frangente siamo magari talmente indaffarati a occuparci dell’ennesima stellina pop che il post-it giallo appeso sul bordo del desktop inizia a scolorirsi. Poi improvvisamente, per qualche strana congiunzione astrale, abbiamo modo di ascoltare un album strepitoso e, con nostro stupore, scopriamo che si tratta proprio di quello che avevamo appuntato.
Proclamato miglior album dello scorso anno dalla rivista britannica Mojo, Queen Of Denmark di John Grant segna una rinascita e una rivelazione al tempo stesso. Una rinascita perché marca il ritorno sulle scene del cantante degli Czars, rock band americana di Denver, che tra il 1994 e il 2004 ha pubblicato sei album intrisi di atmosfere sognanti e malinconiche (la loro musica è stata definita “dream pop”). Dedicarsi a se stesso è servito a John per sanare i conti con una decade passata fra abusi di alcool e cocaina e in cui, come lo stesso cantante ha svelato, è stata contemplata anche la possibilità di un suicidio. Ecco perché il disco si svolge a metà tra gravità e grazia, cucito da melodie e testi che ritraggono una cruda emorragia emotiva, dove spesso le relazioni sono dipinte come una roulette russa e l’amore come un inferno. Eppure, sembra dire John, a tutto questo c’è una risposta, una sorta di redenzione che si percepisce lungo le tracce dell’album. Il folk rock, che prende spunto dall’esperienza passata di John con gli Czars e da quella attuale con i texani Midlake (che al gran completo accompagnano Grant in questa avventura), sottolinea in maniera determinante questo risveglio.
Musica (stupenda) a parte, pensiamo tuttavia che la rivelazione a cui accennavamo prima si manifesti attraverso i testi introspettivi interpretati dalla profonda voce baritonale di John: vi sono brani che raccontano la sua crescita come gay in una famiglia religiosa e, più in generale, del bigottismo e dei falsi stereotipi della gente di provincia (Jesus Hates Faggots); del suo vissuto adolescenziale, quando impossibilitato a dichiararsi gay di fronte ai compagni di scuola, si immaginava come l’ufficiale Ripley intento a scacciare gli alieni (Sigourney Weaver). Altre canzoni narrano degli incontri tra uomini, del suo peregrinare da un amore all’altro (ma ben quattro episodi, a partire dal pezzo di apertura Tc and Honeybear fanno riferimento a Charlie, il primo uomo che gli ha cambiato la vita), dell’intorpidimento dei sensi tramite la continua ricerca dell’intimità: “Credo che l’intero disco tratti la dipendenza nell’accezione totale del termine; ho preferito ‘Queen’ a ‘King’ per via del riferimento gay. In effetti con questo lavoro ho fatto una dichiarazione molto chiara di ciò che sono e per questo motivo vado fiero di esserci riuscito”.
John Grant sarà in Italia ad aprile per due date: il 19 a Bologna, presso la Chiesa di Sant’Ambrogio, e il 20 a Roma presso il Circolo Degli Artisti. Se avete possibilità di passare da quelle parti non perdetevelo.