Tra le scienze sociali l’antropologia è la mia preferita. Ti permette di vedere, studiare, analizzare forme e comportamenti umani in maniera assolutamente soggettiva e arbitraria. Non si richiedono popolazioni ampie da cui desumere statistiche dalla precisione matematica, ma basandosi tutto sull’occhio insindacabile dell’osservatore le relazioni finali si liberano delle critiche dei detrattori sebbene risultino poi molto spesso attendibili quanto I viaggi di Gulliver.
Il mese scorso ho passato 4 settimane a New York proprio con questo intento: capire se e quali fossero le differenze tra i nostri gay e quelli che popolano quell’infilzata di grattaceli conficcati come frecce nel centro di un’isola che a vederla in fase di atterraggio stupisce per la sua esigua estensione. Mi sono quindi appostato nei locali, imboscato tra le fratte dei parchi, appollaiato alle uscite dei ristoranti per capire: è davvero New York la terra promessa per i gay? E la risposta (ricordate soggettiva perché l’antropologia lo permette?) è sì. Lo è. Ma quando esce spontaneamente la domanda successiva: sono gli omosessuali newyorkesi diversi da quelli nostrani? La risposta è: neppure per sogno.Non sono più alti né più bassi, non hanno tre occhi o due cazzi: e che ci crediate o meno sono in tutto e per tutto uguali a noi. Sono certamente più socievoli e se entri in un bar da solo non ti vedi lampeggiare sulla testa una scritta al neon che pulsa gridando “qui c’è uno sfigato!”. Per cui dopo dieci minuti uno straccio d’uomo con cui avere un’inattesa e a volte piacevole conversazione lo trovi. E non necessariamente deve poi finire con la sua mano che lascivamente si insinua tra le tue mutande allo scoccare del terzo drink. Certo, non sono tutti degli animatori di villaggi turistici e anche all’ombra della statua della libertà esiste l’irritante razza dei palo-in-culo, ma in linea di massima la voglia di conoscere anche uso amicizia è molto diffusa.
New York è la terra delle opportunità? Sicuramente. E se quello che cerchi è un uomo qui ne trovi a miliardi e molti bellissimi. Ma altrettanto abbondanti sono anche le possibilità di essere scaricati o meglio, di non essere neppure presi in considerazione per qualcosa che possa sopravvivere al primo incontro. Qui si corre, si trotta e si ha sempre qualcos’altro da fare per fermarsi a considerare se quella è la persona giusta per te e se vuoi rivederla una seconda volta. Ma anche in questo non trovo che l’Atlantico sia uno spazio sufficientemente ampio per rendere le cose drammaticamente differenti. Qui costruire un rapporto può essere altrettanto irreale ed essere mollati è ugualmente frequente. A cambiare semmai è il modo in cui lo si fa. Codici culturali differenti hanno creato tecniche e frasari raffinati in decenni di appuntamenti dribblati e abbandoni repentini di campo portandoli a essere solo molto più carini di noi nel momento in cui ti dicono (o ti fanno capire) che “è stato bellissimo incontrarti, buona fortuna”. Potendo scegliere io sono comunque per la morbida linea americana che ti permette di uscire con un briciolo di sportiva dignità. Cortesia che invece in Italia ti puoi anche scordare perché al di là dei matti che ci sono in cielo, in terra e in ogni luogo, qui da noi si tende a essere più grezzi e piuttosto che affrontare la questione in maniera aperta e matura preferiscono sparire nel nulla per cui ti chiedi se non sia il caso di coinvolgere la redazione della Sciarelli o invece, all’estremo opposto, iniziano una serie di minuetti e machiavellismi, di motivazioni cavillose, di spiegazioni inconcepibili che allungano e dilungano un semplice e unico assunto: non c’è trippa per gatti.
New York è la terra del rimorchio facile? In generale sì, ma sempre con quel retrogusto di puritanesimo dal quale non si riescono a liberare da quando venne esportato a bordo del Mayflower insieme alle foglie di tè. Malgrado le tante battaglie per la liberazione sessuale, alle spalle dei newyorchesi, anche negli approcci più sfacciati, vedi sempre un padre pellegrino che gli pizzica le orecchie. E le mille luci di New York seducono ancora? E come! Almeno me. Sicuramente si è persa l’extravaganza che si respirava allo Studio 54, al Roxy e al The Saint. Tutto ormai sembra confezionato con nastri di perbenismo e borghesia ed entrando nei locali a volte ti chiedi: “Ma è tutto qua?”. Ma questo è il rischio che corrono tutti i miti, gli ombelichi del mondo e i primi della classe: le aspettative sono sempre altissime e gli aggettivi che ti sei guadagnato devono sempre essere superlativi, assoluti. Scendere dall’ottimo al buono non è ammissibile, pena critiche feroci da amante deluso. Del resto è comprensibile, siamo cresciuti nel suo mito del “tutto di più” per mantenere il quale tutti i suoi abitanti, dal delivery boy della pizzeria a Woody Allen, si danno un gran da fare. Per una città che non sembra vivere per loro quanto semmai il contrario. Una divinità fatta di street e di avenue alla quale votano la loro vita vestali indefesse sempre in a hurry per mantenere ardente il suo faro che nonostante tutto proietta ancora una luce seducente e ammirata su tutto il mondo.