All’inizio degli anni ‘80, quando cominciarono ad arrivare dagli Stati Uniti le prime notizie su una misteriosa malattia che sembrava colpire esclusivamente gli omosessuali, molti anche in Italia pensarono che l’Aids fosse una minaccia escogitata da qualcuno per soffocare una comunità gay che stava diventando sempre più visibile. Oggi, a quasi trent’anni dall’inizio dell’epidemia, verrebbe da dire che la minaccia è diventata realtà, che la visibilità della comunità gay è stata insabbiata e che gli stessi gay sono diventati i migliori favoreggiatori di questa strategia di nascondimento. Tanto che c’è da chiedersi se abbia senso celebrare la Giornata mondiale per la lotta contro l’Aids del 1° dicembre su un mensile gay. Diciamocelo: la comunità omosessuale si è dimostrata incapace non solo di tutelare i propri diritti ma persino di tutelare la propria salute, fino ad arrivare al punto di giocarsi come se nulla fosse la vita di molti dei suoi membri. E questo, una volta tanto, in Italia come all’estero.
Partiamo dalle analisi epidemiologiche. Secondo il Terrence Higgins Trust, una delle prime e più importanti associazioni di lotta all’Aids del Regno Unito, tra i gay che frequentano i locali londinesi uno su sette ha l’Hiv. A San Francisco risulta sieropositivo un quarto di coloro che girano per la scena gay e a New York quasi uno su tre. Parliamo di Londra, San Francisco e New York, cioè delle città in cui è nata la lotta per i diritti dei gay così come quella contro l’Aids, città che fin dagli inizi dell’epidemia si sono mobilitate massicciamente per fermare quella “minaccia” di cui parlavamo più su. Che cosa è successo? Forse la comunità omosex non ha mantenuto memoria dell’impegno che aveva nella battaglia contro la malattia? O forse è successo qualcos’altro?…
Di certo abbiamo abbandonato il safe sex. Lo confermano tutte le analisi sulla diffusione delle malattie a trasmissione sessuale: la gonorrea, per dirne una, se la becca circa l’80 per cento dei gay di San Francisco e quasi la metà di loro dichiara candidamente di avere rapporti sessuali non protetti (sono dati che vengono dall’Università della California). Da noi, cifre e analisi sulla salute della popolazione omosessuale sono solo un miraggio, ma non ci vuole un esperto per vedere che di preservativi nelle dark disseminate nei locali gay nostrani se ne usano pochi, pochissimi. E in chat dichiararsi favorevole al bareback, cioè alla condivisione profonda dello sperma prevista dal sesso senza preservativo, non è certo un ostacolo al rimorchio. Magra consolazione, da noi il bareback non ha preso le pieghe da fanatismo registrate negli Stati Uniti dove il direttore dei servizi di salute comportamentale della Contea di San Francisco, Robert Cabaj, ha dovuto lanciare due anni fa un allarme dalle colonne della rivista Rolling Stone dichiarando che almeno un quarto dei gay recentemente infettati avevano cercato deliberatamente il contagio. Sono i cosiddetti bug-chaser (letteralmente cacciatori del germe) che considerano il fatto di diventare sieropositivi come il momento in cui si possono finalmente aprire per loro le porte del “Nirvana sessuale”. Deliri senza senso? Certamente deliri, ma che forse un senso lo nascondono: questi vaneggiamenti – da condannare senza appello – rivelano nella loro drammaticità un aspetto importante della lotta all’Aids, cioè il fatto che la lotta all’Aids si concretizza nel momento in cui ciascuno di noi sceglie di proteggersi mentre fa sesso. È quel momento della scelta, quella decisione da prendere, è lì che si decide se vogliamo combattere la battaglia o lasciarci sopraffare. E decidere di passare dalla parte del nemico, come fanno i bug-chaser, non è più deprecabile di chi pur sapendo che su quel terreno si gioca una battaglia mortale, fa finta di niente e continua a raccogliere margherite. Fuor di metafora: non è che i gay – italiani, londinesi, di San Francisco o in tutti i luoghi dove esiste una comunità gay – non sappiano che l’Hiv c’è, sanno anche bene come si può evitare di prenderlo, però preferiscono far finta che questa cosa non li riguardi e se gli capita di fare sesso in una situazione in cui il preservativo sarebbe di troppo, si va avanti con un’alzata di spalle. Ecco, questo è l’atteggiamento di chi fa finta di non essere su un campo di battaglia.
Forse è anche comprensibile che dopo due decenni di ossessione sul sesso protetto qualcuno abbia voglia di lasciarsi andare e di far finta che il problema non sia così grave. “In fin dei conti ora ci sono i farmaci”, si pensa. Ed è anche vero: i farmaci ci sono, sono sempre migliori, meno tossici e più tollerabili. Ma non risolvono niente: il vaccino ancora non c’è, come ha meritatamente precisato proprio Barbara Ensoli in ogni occasione in cui recentemente è stata chiamata a commentare i risultati pure positivi (ma che non promettono una “cura definitiva”) del suo studio sul vaccino. Inoltre, anche con i farmaci attuali l’aspettativa di vita di una persona con Hiv è comunque minore di quella di un coetaneo sieronegativo. Lo stato di infiammazione permanente che l’Hiv riesce a produrre nell’organismo e che, pur essendo oggetto di molti studi recenti, non è ancora stato compreso fino in fondo, è in grado di provocare danni che magari non si manifestano direttamente con l’Aids come accadeva fino a 15 anni fa, ma che comunque rendono molto più vulnerabile la salute delle persone con Hiv.
Facile terrorismo? Qualcuno lo penserà, ma è necessario ribadire che l’Hiv non è ancora una robetta da niente che possiamo far finta di ignorare perché siamo ancora giovani e abbiamo voglia di goderci la vita (o siamo ormai troppo in là con l’età per rinunciare a goderci la vita…). Far finta di niente non è una strategia che paga, né nel campo della salute personale né in quello delle strategie della comunità omosessuale. Perché sono in molti a pensare che se i gay hanno abbassato la guardia una parte di responsabilità grava anche sulle associazioni, cioè su quelle organizzazioni nate con il compito di rappresentare la comunità nelle battaglie in cui è coinvolta. Sono ormai molti anni che il riconoscimento delle unioni civili è al centro delle rivendicazioni delle associazioni gay di tutto il mondo molto più che l’adozione di strategie di informazione e prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale adatte alla popolazione omosessuale. Il motivo? Ottenere il riconoscimento giuridico per le coppie gay significherebbe rendere gli omosessuali cittadini a pieno titolo, affermando a lettere legali una parità totale almeno sulla carta. Ottimo punto di partenza. Ma cosa significherebbe, invece, avere uno stato che si impegna a realizzare una efficace campagna di prevenzione dell’infezione da Hiv rivolta ai gay? Ecco il ministro della salute che nomina un sottosegretario appositamente per coordinare un gruppo di lavoro che rilevi i comportamenti sessuali dei gay, cosa che lo costringe ad ammettere che anche loro hanno una attività sessuale e che questa non viene analizzata per essere giudicata, condannata e violentemente stigmatizzata come siamo abituati a vedere, ma perché gli esperti del gruppo di lavoro studino i modi più efficaci per dare informazioni proprio in merito a quella vita sessuale. Perché in questo progetto ipotetico la preoccupazione principale dello stato sarebbe che il maggior numero possibile di cittadini gay resti in buona salute pur continuando ad essere gay. Progetto ipotetico o piuttosto utopico? Certo se guardiamo chi rappresenta lo stato nei nostri anni – e per una volta non c’è distinzione tra Berlusconi e Prodi – sembra davvero una idea irrealizzabile.
Eppure sarebbe perfettamente plausibile che le associazioni gay mettessero al centro delle loro rivendicazioni questa semplicissima richiesta: che lo Stato si faccia carico della buona salute dei suoi cittadini omosessuali. Questa sì che sarebbe una richiesta centrale e riguarderebbe tutti gli omosessuali, sia che si vogliano sposare o che vogliano continuare a frequentare le dark per tutto il periodo della loro potenza sessuale. E il fatto che sia una richiesta sproporzionata rispetto alla realtà politica in cui viviamo non dovrebbe scoraggiarci, a meno che non vogliamo continuare a fare esattamente lo stesso gioco che fanno i politici, cercare di portare a casa un pezzetto di risultato oggi senza preoccuparci di ciò che lasciamo a chi viene domani. Un comportamento che, oltretutto, fino ad oggi non è stato premiato da grandi risultati…
Se è vero che dietro il mancato riconoscimento delle coppie omosessuali c’è un grave problema di disuguaglianza, è ancora più vero che dietro il continuo diffondersi di infezioni da Hiv tra i gay c’è una profonda disuguaglianza nel modo in cui la salute dei gay viene considerata rispetto ai cittadini eterosessuali. Certo non è una novità che i gay costituiscano un gruppo socialmente marginalizzato, ma non molti capiscono che proprio questa caratteristica porta a un peggioramento delle condizioni di vita, anche dal punto di vista sanitario. La marginalizzazione impedisce che in quel gruppo circoli informazione e lo rende quindi povero degli strumenti culturali necessari per affrontare con successo la lotta all’Aids (al pari di molte altre cose). È noto da innumerevoli studi che – ad esempio – la prevalenza di infezione da Hiv (cioè il numero di casi rispetto al numero della popolazione) tra gli uomini di colore o tra gli ispanici negli Stati Uniti sia molto maggiore rispetto a quella registrata tra i bianchi. E non c’è niente di biologico in questo: si tratta di uno svantaggio culturale che si riflette sulle condizioni di salute. Illuminante e sconvolgente in questo senso uno studio recentissimo (ottobre 2010) condotto nel Distretto di Columbia, cioè a Washington, che ha registrato una più elevata prevalenza di infezione da Hiv tra gli Msm (Men who have sex with men, uomini che fanno sesso con uomini) neri rispetto ai bianchi nonostante un minor tasso di rapporti sessuali non protetti. I neri avevano il 26% di possibilità di essere sieropositivi, contro un 7,9% dei bianchi, ma riferivano un minor numero di partner sessuali maschi, e una minor percentuale di loro avevano intenzionalmente avuto rapporti sessuali non protetti; in compenso pochi di loro avevano una assicurazione sanitaria e pochi avevano fatto prima di allora un test Hiv o avevano parlato del fatto di far sesso con uomini al loro medico. I risultati, secondo gli autori dello studio, “suggeriscono che tra gli Msm neri, il rischio primario di infezione da Hiv risulta da fattori di rischio sessuali non tradizionali e potrebbe includere barriere allo svelamento dello stato di Msm e al test Hiv”. Quanto più uno è culturalmente impreparato, tanto più rischia di prendere l’Hiv, sembra suggerire questo studio. Ecco perché uno dei modi migliori per celebrare la Giornata mondiale per la lotta all’Aids è anche semplicemente pensare all’Aids e ragionarci un attimo su.