Dopo quattro anni (il precedente, Esperimenti di felicità provvisoria, è del 2006) arriva in libreria un nuovo romanzo di Matteo B. Bianchi, nuovo anche nella presentazione editoriale, ma soprattutto nei contenuti e nello stile. Si intitola Apocalisse a domicilio (Marsilio, Padova 2010, pp. 240, euro 18,00) e attraverso la storia di una tragedia annunciata (una inquietante profezia di morte che induce il protagonista a ripercorrere il suo passato e a cercare le persone che ha veramente amato), mette in scena il bisogno di interrompere la quotidianità frenetica che caratterizza la nostra vita, l’esigenza di fermarsi, di chiedersi quale sia il senso delle esperienze che viviamo. E lo fa con uno stile incalzante, che ai toni divertiti e scanzonati che conosciamo, aggiunge una nuova drammaticità. Per approfondire il discorso abbiamo incontrato l’autore.
Questo romanzo arriva dopo quattro anni. A cosa è dovuta una gestazione così lunga?
Uno scrittore, soprattutto in Italia, non vive solo dei suoi libri e io, oltre a scrivere romanzi, faccio altre cose, prima fra tutte scrivere per la televisione. In questo ultimo periodo ho anche lavorato alla sceneggiatura di un film che non so nemmeno se verrà realizzato, perché il progetto al momento si è arenato per questioni produttive. La ragione profonda della lunga gestazione di questo romanzo tuttavia forse è un’altra: si tratta di un libro molto sofferto e non ti nascondo di aver avuto vari ripensamenti.
La televisione ti dà molte gratificazioni?
Non parlerei di gratificazioni, perché si tratta sempre di lavoro, con tutte le responsabilità e lo stress che comporta, però posso dire di essere fortunato: faccio lavori che mi piacciono, prima col programma quotidiano Dispenser di RadioDue Rai, ora con Victor Victoria, un programma ironico e divertente che va in onda su La 7, un canale di nicchia ma decisamente più interessante della media.
Il tuo primo romanzo, Generations of Love del 1999 rappresentò una grande novità nella narrativa italiana e generazioni di lettori, soprattutto gay ma non solo, si sono riconosciuti in quel tipo di educazione sentimentale fino a fare di quel libro un cult. Cosa è cambiato in questi anni e cosa rimane di quella esperienza in questo Apocalisse a domicilio?
Mi verrebbe da rispondere, molto semplicemente, che ho superato i quarant’anni e che il tono giovanile e spesso ilare di Generations mi appartiene meno. Allo stesso tempo credo che anche i lettori siano cresciuti con me e quindi forse si riconosceranno maggiormente in un linguaggio più maturo. Sono molto legato a Generations, è un libro che mi ha dato delle soddisfazioni, anche umane, indescrivibili: migliaia di e-mail, gesti d’affetto continui, gente che dichiara di averlo letto decine di volte… Non capita a tutti gli scrittori, sono un privilegiato in questo e ne sono consapevole. Tuttavia Generations è un libro che parla della mia adolescenza, quindi è inevitabile che io come autore debba guardare avanti, percorrere altre strade. Diciamo dunque che se il protagonista di Generations era un giovane uomo che analizzava la sua adolescenza appena trascorsa, in Apocalisse c’è un quasi quarantenne che si interroga sul suo imminente futuro.
Attraverso gli incontri con le persone che ha amato, il tuo protagonista ripercorre le esperienze più significative della propria vita, che assumono, mi pare, un valore emblematico, dal bisogno di fuga da un futuro precostituito ai primi turbamenti, quando un gay si può innamorare (o può credere di essersi innamorato) della persona che la cultura in cui viviamo ci ha insegnato a preferire, fino alle esperienze più mature in cui due uomini consapevoli decidono forse di costruire insieme un progetto di vita. In questo senso la storia che narri assume un significato di grande importanza nella realtà odierna…
Diciamo che forse tutti noi attraversiamo fasi simili nella vita, ciascuno coi propri tempi e i propri modi. Quando scrivo cerco sempre di raccontare esperienze che possano essere in qualche modo simboliche per chi mi legge, che possa trovarci tracce di sé, del suo percorso. Diciamo però che questa volta ho voluto spingere un po’ il pedale e affrontare questioni un po’ più radicali: il protagonista viaggia, incontra un sacco di gente, va a feste in spiaggia e locali hardcore, attraversa una serie di situazioni a volte divertenti a volte meno, ma in generale è mosso da una filosofia che gli altri non riescono a capire fino in fondo. Se dovessi definire qual è il soggetto di questo libro, risponderei che è un libro sulla morale che ciascuno di noi costruisce per se stesso.
Il tuo protagonista vive l’esperienza più significativa all’estero, a San Francisco, e a un certo punto del romanzo c’è un confronto tra la realtà californiana e quella italiana. Al di là della storia che narri, come vivi questo confronto?
Come scrittore non posso fare a meno di confrontarmi con temi come quelli dei diritti civili, della famiglia gay… Che vuoi che ti dica? Il confronto è inevitabile e, aggiungerei, inesorabile, e quello che emerge è che la condizione che viviamo in Italia è veramente preoccupante. Ti faccio un esempio concreto: hai idea di cosa significhi per una coppia non riconosciuta comprare casa e aprire un mutuo insieme? Non esistono neanche i moduli… È davvero frustrante, oltre che anacronistico: siamo l’unico paese europeo ancora a questi livelli di arretratezza.
Di fronte a una coppia gay di San Francisco che vive serenamente con un bambino che ha adottato, a un certo punto si dice nel romanzo che certe realtà, altrove all’ordine del giorno, da noi suonano come fantascienza e un personaggio aggiunge: “Eh, il papa…”. Questo attribuire la nostra arretratezza alla presenza del papa non è un po’ un alibi?
Nel romanzo la battuta è un po’ provocatoria, ma non casuale. Penso che la presenza cattolica abbia veramente un’influenza enorme, non solo per quanto concerne l’omosessualità… Pensa allo sfascio della scuola pubblica e alla proliferazione di scuole confessionali finanziate da soldi pubblici, alla legislazione sulla procreazione assistita e a tanti aspetti che hanno a che fare con una civile convivenza. La nostra è una situazione disastrosa: chi vuole il riconoscimento di certi diritti è costretto a mettersi sempre in posizione di netto antagonismo nei confronti della chiesa, siamo costretti periodicamente a ricordare ai nostri politici che viviamo in uno stato laico, perché sembrano dimenticarlo troppo spesso.
I luoghi più significativi del romanzo, a parte Milano, dove vive il protagonista, sono un villaggio sul mare lunga la costa del nord della Sardegna, Roma e San Francisco. Emblematici anche i luoghi?
Sono luoghi che si prestavano perfettamente come sfondi per rappresentare tre momenti differenti dello sviluppo sentimentale del protagonista e allo stesso tempo sono posti che anch’io ho frequentato. Mi piace utilizzare nella narrazione scenari che conosco perché posso renderli credibili e vivi anche per il lettore. È un meccanismo che applico anche alla costruzione dei personaggi. Per dire, l’ambito professionale: il protagonista è un autore televisivo. Dal momento che lavoro in tv io stesso ho potuto creargli intorno un ambiente realistico, anche se le vicende che gli accadono nel romanzo non hanno niente a che vedere con la mia personale esperienza. A volte i lettori confondono i piani e la cosa mi diverte sempre. Nel mio romanzo precedente, Esperimenti di felicità provvisoria, uno dei personaggi era una scrittrice che detestava fare gli incontri in libreria. Adesso ogni volta che ho una presentazione c’è sempre qualcuno che mi sussurra: “So che tu odi queste cose”. In verità a me piacciono moltissimo e mi fa sorridere pensare di essere scambiato per un mio personaggio.
Nella narrazione si alternano tre punti di vista: il più importante è quello del protagonista per il quale hai scelto la seconda persona. Il punto di vista di Giulia, la sensitiva, è invece in prima persona, mentre quello di Stefano, il fratello del protagonista, è affidato a una narrazione “oggettiva” in terza persona. Quali sono i motivi di questa scelta stilistica?
Utilizzare il “tu” come soggetto è una scelta poco praticata in letteratura e forse qualcuno la troverà strana. Non esistono molti romanzi alla seconda persona (mi vengono in mente rari esempi, forse uno dei più celebri è Le mille luci di New York di Jay McInerney), eppure è da tempo che volevo farlo. Il “tu” è tipico della musica (quasi tutti i testi di canzoni sono alla seconda persona) e io ho radici profondamente musicali e pop. Inoltre mi permette di rivolgermi quasi direttamente al lettore: il protagonista del romanzo non ha nome. Il personaggio di Stefano, il fratello, è in terza persona appunto perché ha un ruolo più da testimone oggettivo. Giulia, la sensitiva, è in prima persona perché ha il ruolo più emotivo e meno razionale di tutta la vicenda. È una figura curiosa, perché ha una dote pazzesca e allo stesso tempo quasi detesta il fatto di possederla: è senza dubbio il personaggio che è piaciuto di più ai primi lettori del romanzo.
È il personaggio più inquietante e più insolito…
Sì… Io ho sempre scritto libri aderenti alla mia realtà autobiografica o mutuati da esperienze a me vicine. Ultimamente sono affascinato da situazioni un po’ surreali: l’dea di una sensitiva che riesce a prefigurare il futuro mi intriga molto, però ho provato a farne un personaggio credibile, concreto, spaventato dalle sue stesse doti. Credo che in questo modo il personaggio risulti ancora più minaccioso.
Tu sei uno scrittore molto versatile: letteratura, radio, cinema, televisione. Dopo questo romanzo cosa dobbiamo aspettarci?
Non sono versatile, ho un deficit attenzionale! Dopo un po’ che sono su un progetto perdo interesse e devo dedicarmi ad altro. Per questo alterno gli ambiti della scrittura: narrativa, cinema, tv, testi di canzoni, blog, riviste… In pratica sono un bambino che deve cambiare gioco di continuo, credo sia un grave caso di sviluppo cognitivo interrotto. Per quanto riguarda il futuro, anche se ho già in mente la trama di un paio di possibili romanzi, nei prossimi mesi ho in previsione una serie di uscite piccole ma continue: ci saranno miei racconti in diverse antologie e anche in alcune singole uscite come volumetti per piccoli editori. Sono stato lontano dalle librerie tre anni e mezzo. Mi sembra un tempo troppo lungo, non voglio più stare così tanto in silenzio.