Keith Haring, uno dei pittori più importanti della seconda metà del ‘900, moriva 20 anni fa di AIDS poco dopo aver realizzato in Italia il suo ultimo capolavoro pubblico. Ritratto di un genio sfaccettato e troppo spesso censurato.

(prima pubblicazione Pride settembre 2010)

 

Keith Haring fu al contempo un artista di fama mondiale, un attivista gay socialmente impegnato e un uomo d’affari. Una combinazione simile, probabilmente, si poteva creare in un unico decennio, gli anni ’80 del secolo scorso, in un unico paese, gli Stati Uniti d’America, e in un’unica metropoli, New York City. Difatti, in questa medesima combinazione geografica e temporale si assiste alla nascita di Madonna, grande amica di Haring, che presenta a proprio modo medesime caratteristiche: pop star, icona gay planetaria, businesswoman di perdurante successo.

La filosofia di Haring è racchiusa in una frase all’apparenza semplice che scrisse nei suoi diari nel 1978, all’età di 20 anni, quando ancora era lontano dal pensare che sarebbe potuto diventare un artista affermato: art is for everyone, l’arte è per tutti. Alla fine del 1989, pochi mesi prima di morire, Haring era un divo di prima grandezza. Idolatrato in Giappone come un mito, ammirato e stimato in Europa, sostanzialmente snobbato e detestato negli Stati Uniti. ”Mi chiedo se il mondo dei musei mi accoglierà mai così, o se scomparirò con la mia generazione” annota, perché non gli si perdonava di aver infranto e capovolto le regole del gioco, essendo diventato conosciuto e amato dal pubblico partendo dal basso ed evitando la selezione dell’elitario mondo dell’arte.

Haring sviluppò un amore per il disegno in giovane età grazie a suo padre che gli insegnò i primi rudimenti del fumetto, e influenzato dalla cultura per l’infanzia dell’epoca come i libri di Dr. Seuss, Walt Disney e altri eroi delle animazioni televisive. In famiglia si notò presto la sua propensione artistica e l’arte fu un interesse centrale durante la sua adolescenza ribelle e sperimentale, con consumo di droga e alcol e viaggi in autostop in giro per il paese. A San Francisco, con la frequentazione della Castro Street, inizia a manifestare il proprio orientamento omosessuale.

Nel 1978 lascia Kutztown, la piccola città di provincia della Pennsylvania dove abitava, per trasferirsi a New York dove si iscrive alla School of Visual Arts. È il secondo tentativo di intraprendere un percorso di formazione “regolare” nel campo dell’arte, ma come il primo subito dopo il liceo, la Ivy School of Professional Art a Pittsburgh, sarà abbandonato per continuare uno strenuo apprendistato personale a base di libri, visite a mostre e riflessioni su tutti gli stimoli che ne riceve. Se Haring a scuola sperimenta la performance, i video e fa installazioni, è alla pratica del disegno però che resta fortemente legato, iniziando a perfezionare quel tratto distintivo che lo renderà riconoscibile a prima vista.

Nel 1980 si accorge dei fogli neri opachi che coprono le pubblicità a cui è scaduta la tassa di affissione nei corridoi delle stazioni della metropolitana. Sono una specie di lavagna che gli permette di comunicare con un pubblico ampio, popolare nel senso che quasi di sicuro non mette mai piede né in una galleria d’arte né in un museo, né regolarmente né probabilmente mai. Per cinque anni produce centinaia di questi subway drawings, facendosi multare ripetutamente e persino arrestare per atti di vandalismo. La gente però inizia ad accorgersi di lui, e la sua arte semplice e simbolica diventa una compagnia familiare per i pendolari che vanno in ufficio, tanto che qualcuno inizia a strappare i disegni per portarseli a casa.

Altra svolta epocale della sua carriera è l’incontro personale con Andy Warhol, a cui fu legato da amicizia sincera e profonda e che considerava il suo maestro. “La vita e il lavoro di Andy hanno reso possibile il mio lavoro. Andy aveva stabilito il precedente che rende possibile l’esistenza della mia arte. È stato il primo vero artista pubblico in senso globale”. Eppure, sotto certi aspetti, l’allievo supererà il maestro in molti sensi. A differenza di Warhol, sarà un omosessuale pubblicamente dichiarato e nel momento in cui si scoprirà sieropositivo diventerà un attivista che lotta in prima linea insieme ad Act Up, rilasciando al riguardo un’intervista choc per l’epoca alla rivista Rolling Stone nel 1989.

Nel 1982 alla Tony Shafrazi Gallery a SoHo tenne la sua prima mostra personale e niente fu più uguale a prima. Come dice Madonna nella biografia ufficiale di Haring: “ll lavoro di Keith iniziò nelle strade e attirò l’attenzione delle stesse persone che si interessavano a me: soprattutto neri e ispanici, persone con un basso reddito e un background umile. (…) Keith è riuscito a portare nella cultura popolare alcuni elementi di quella che io chiamo Street Art, arte che faceva parte di una controcultura underground. Io feci lo stesso, portando al consumo di massa uno stile nato nelle strade”.

Haring inoltre affronterà e rappresenterà i temi di attualità della sua epoca: dalla minaccia dell’annientamento nucleare all’oscenità dell’apartheid in Sud Africa fino all’orrore dell’Aids simbolizzato come un serpente, e il bisogno che le persone hanno di avere uno scambio emotivo in un mondo che iniziava a conoscere le rivoluzioni della tecnologia. Anche la sua sessualità, inquieta e senza sosta, lascerà tracce inequivocabili nel suo linguaggio visuale ma, purtroppo, è rarissimo vederle nelle grandi mostre retrospettive che gli si dedicano.

La sua produzione omoerotica, che rasenta la pornografia elevata ad arte, è quella che indubbiamente rappresenta la più grande e biecamente censurata pietra dello scandalo nel percorso artistico di Haring. Una rarissima testimonianza al riguardo sono i murales, tuttora visitabili, che dipinse nei bagni del Gay Lesbian Community Service Center nel Greenwich Village, a poca distanza da dove si trova un suo innocente murale dipinto sulla parete di una piscina pubblica all’aperto.

Persino nel melenso documentario The Universe of Keith Haring di Christina Clausen se ne vede solo uno scorcio tramite una fotografia in bianco e nero per pochi secondi, quasi si tratti di una citazione di sfuggita e un po’ imbarazzata. Una classica proposta amputata ed edulcorata insieme, forse studiata per raggiungere il maggiore pubblico possibile comprese le famiglie con bambini. In fondo l’arte di Haring è considerata giocosa e un po’ infantile, ingenua nella sua solo apparente lineare semplicità. D’altro canto il casto annullo postale speciale da lui disegnato, emesso per il lesbian & gay pride del 25 giugno 1989 che celebrava il ventennale della rivolta di Stonewall, fece infuriare l’ultraconservatore senatore repubblicano Jesse Helms che si scagliò pubblicamente contro le autorità postali.

Il terzo fondamentale capitolo della sua storia personale si può definire l’apertura del Pop Shop nel 1986, esperimento che esportò successivamente a Tokyo. È un negozio che permetteva a chiunque di sentirsi parte del suo mondo per pochi dollari, comprando magliette, poster, spille, magneti per frigorifero, giocattoli per bambini o, magari, uno dei quattro modelli di orologio a tiratura limitata che Haring disegnò per la Swatch. Pur non essendo tra gli esemplari più quotati tra i collezionisti, il Modèle avec personnages con i suoi omini che ballano la breakdance al posto dei numeri delle ore è sicuramente paradigmatico di un intero decennio: plastica, colori vivi, moda e design per chiunque. Con piena benedizione del maestro, la lezione di Andy Warhol è stata superata e la pop art ha raggiunto la gente.

In parallelo Haring è invitato a esporre e proporre la sua arte in tutto il mondo e su qualsiasi possibile mezzo: dalle vetrate della National Gallery of Victoria di Melbourne in Australia (distrutte per protesta, perché i suoi disegni appaiono come un insulto alla pittura aborigena) al muro di Berlino; dai tessuti per una collezione dello stilista Stephen Sprouse all’etichetta d’artista per gli snobbissimi vini Château Mouton Rothschild (inserendosi in una lista che comprende nomi del calibro di Picasso, Dalì, Cocteau, Mirò, Chagall, Kandinsky…); da un muro nell’ospedale per bambini del principato di Monaco (che gli varrà un’onorificenza ufficiale raramente concessa a chi non è monegasco da parte della principessa Carolina) a una Bmw della serie Art, la cui quotazione ha ora superato i 4 milioni di dollari. Nella lista è incluso un dirigibile che vola sopra Parigi, un casinò in Belgio accanto alle decorazioni originali di Réné Magritte, una giostra per un parco di divertimenti a tema in Germania, un invito a forma di disco inciso a 45 giri per una festa di compleanno della principessa Gloria von Thurn und Taxis, tanto per restare nel camp, e tanto altro ancora.

Per quanto riguarda il nostro paese, è soprattutto il rapporto tra Haring e Milano che fu profondo, e non solo perché all’aeroporto, durante le soste tra una tappa e l’altra dei suoi giri intorno al mondo, vi incrociava la sua amica Grace Jones o magari Roy Lichtenstein.

Fu alla galleria Salvatore Ala che nel giugno 1984 tenne la prima personale italiana, per cui disegnò apposta uno dei suoi più bei manifesti. Considerava il Plastic il migliore “club” europeo e sua fu la trasformazione radicale del negozio Fiorucci in Corso Vittorio Emanuele, di cui nel 1985 riempì di graffiti i muri, i mobili, i soffitti con colori fosforescenti.

In un’intervista al mensile Stilearte del 2005, Elio Fiorucci racconta così quella esperienza: “Invitai Haring a Milano, stregato dalla sua capacità di elevare l’estemporaneità ai gradini più alti dell’arte. Egli diede corpo ad un happening no stop, lavorando per un giorno e una notte. I suoi segni ‘invasero’ ogni cosa, le pareti ma anche i mobili del negozio, che avevamo svuotato quasi completamente. Fu un evento indimenticabile. Io feci portare un tavolone, fiaschi di vino, bicchieri. La gente entrava a vedere Keith dipingere, si fermava a bere e a chiacchierare. Ventiquattr’ore di flusso continuo; e poi i giornali, le televisioni…”.

Keith Haring  credeva  che l’arte fosse capace di trasformare il mondo, poiché le attribuiva un’influenza positiva sugli uomini. Forse non è a caso che il suo ultimo capolavoro pubblico lo intitolò Tuttomondo ed è un coloratissimo murale di centottanta metri quadri sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio a Pisa, in cui riproduce tutti i simboli che lo hanno reso celebre.

Se Haring fosse vissuto più a lungo avrebbe sicuramente superato lo stile che lo rese famoso, e questa direzione è lampante nelle sue ultime opere su tela, ma a soli 31 anni si spense. Sicuramente da lassù, con il suo disarmante sguardo da bambino curioso, ci guarda e sorride.