Che dire dopo tanti pride? Per esempio che le nostre sfilate orgogliose e colorate non fanno più rumore come una volta. “Siamo nel 2010, non siamo più nel 2000”, dice una battuta dell’ultimo film di Ozpetek che calza a pennello alla regressione spirituale del paese come alla decrescente efficacia politica/sociale del nostro storico strumento di lotta. La buona notizia è che nessuno o quasi ci contesta più il diritto di scendere in piazza, una volta l’anno, con o senza le piume di struzzo. Ma intanto ci siamo persi per strada la carica provocatoria delle origini e non possiamo pensare di continuare a viverci di rendita facendo finta di niente. Non scandalizzano più le paillettes, i seni siliconati e nemmeno le mamme lesbiche e i babbi gay sul loro trenino arcobaleno. E non esiste più la concezione magica secondo cui la nostra semplice e liberata presenza sarebbe sufficiente a sovvertire il mondo. Per raggiungere il ben più modesto obiettivo dell’uguaglianza formale per i non eterosessuali oggi occorre qualcosa in più, mentre il pride è diventato un rito piuttosto innocuo e digeribile, ripetitivo e a volte pure un po’ stanco, come si evince anche dal fatto che dalle unanimi prime pagine che conquistammo nel fatidico 2000 siamo oggi unanimemente relegati nelle cronache locali.
La sfilata non è neppure più tanto un evento di per sé, almeno dal punto di vista della copertura dei media. Fanno più notizia ormai dei fatti secondari, che hanno però il pregio di rispettare i canoni “sanguinari” della cronaca, pronta a illuminare gli squarci di realtà da cui provengono i rumori più inquietanti. Così quest’anno la notizia più succosa ricavata dal pride nazionale di Napoli è stata la contestazione (piuttosto etero nei modi e antichissima nelle motivazioni) contro la deputata del Pd Paola Concia. L’unica parlamentare lesbica dichiarata di questa legislatura è stata assalita verbalmente e invitata a uscire dal corteo da un gruppo di contestatori perché dieci mesi prima aveva accettato di prendere la parola in un dibattito organizzato da un circolo della destra radicale romana, violando così il comandamento rivoluzionario secondo cui “coi fascisti non si parla”. Siamo come si vede ai confini della realtà (e ci chiediamo al tempo stesso come mai quelli di Gaylib circolino impuniti nelle nostre manifestazioni), ma l’estraneità di questo episodio al messaggio politico fondamentale del pride (uguaglianza nel rispetto delle differenze) non toglie che visto da fuori spiccasse sulla prevedibile transumanza urbana dei carri e del popolo che ci stava sopra e accanto. Un discorso analogo si potrebbe fare su un lancio di petardi intimidatorio al Gay Village (due feriti lievi) o sulle polemiche tra associazioni glbt che hanno preceduto il pride di Roma e hanno finito per interessare i giornalisti più del pride stesso.
Si ha un po’ la frustrante sensazione di essere entrati a far parte del paesaggio senza che nulla sia cambiato davvero, nel paese dove cambia sempre tutto perché tutto resti com’è. Un bilancio generale di questi pride 2010, senza nulla togliere al valore e all’importanza specifica dei singoli eventi, non può eludere la questione fondamentale che andare in piazza a far vedere che ci siamo non basta più a fare sì che qualcuno ci ascolti o semplicemente ci conceda la propria attenzione. Il che naturalmente non vuol dire che dobbiamo smettere di andarci, solo che occorre una strategia sempre più articolata e consapevole per rilanciare una battaglia che ha un unico esito possibile, se la rotta del mondo non cambia radicalmente: il riconoscimento di un pieno diritto di cittadinanza che ci spetta indiscutibilmente in linea di principio. Si tratta tuttavia di stabilire quando. Il diritto, in teoria, lo ha sancito di recente anche la corte costituzionale, rinviando però la palla a un legislatore programmaticamente latitante. Così stando le cose, si può pensare di allargare il confronto e di ottenere che le istituzioni internazionali spingano in qualche modo l’Italia a mettersi in regola con gli standard europei.
Un’occasione d’oro per avere i riflettori del continente puntati su di noi ce la fornisce, ironia della sorte, proprio un altro pride. L’Europride del 2011 si terrà infatti a Roma. Ma il punto è che sarà un’occasione sprecata se prevarranno la mancanza di fantasia e di efficacia politica, accompagnate dal perenne sottofondo del pollaio che starnazza su chi occupa il palco reale, che hanno caratterizzato le stagioni più recenti. Per non perdere questo treno bisognerebbe attrezzarsi per tempo e per prima cosa riporre in borsetta l’ascia di guerra, in modo da poter lavorare tutti insieme appassionatamente a creare qualcosa di importante e speciale. Un esempio metodologico non lontano nel tempo lo fornisce il Torino pride del 2006, che nel corso di un intero anno di iniziative riuscì a creare in città un’atmosfera che poi diede i suoi frutti nella quantità e qualità della partecipazione alla sfilata finale e oltre. Creare un percorso di avvicinamento che accresca il consenso intorno a noi, anziché limitarci a diminuire quello che c’è tra di noi (processo di cui si sta occupando anche la fisica delle particelle infinitesimali).
Certo Roma non è Torino. Non c’è in partenza un’amministrazione particolarmente amichevole né tantomeno un clima di distesa collaborazione tra le associazioni glbt locali. Da questo punto di vista potrebbe paradossalmente evitare inutili zuffe il fatto che l’Europride abbia già un organizzatore predefinito e riconosciuto a livello internazionale nel circolo Mario Mieli. Chiarita in anticipo la questione delle responsabilità formali (che appassiona tanto l’associazionismo glbt ma di cui al resto del mondo poco importa) è ovvio che la riuscita ottimale di un appuntamento internazionale necessita di energie che vanno anche oltre quelle di cui il circolo Mario Mieli singolarmente dispone. È perciò auspicabile che si aprano canali di collaborazione, sia con le associazioni rappresentative a livello nazionale che con altri gruppi locali, per fare sì che il pride torni a essere, anziché lo show un po’ ritrito che tende sempre più a diventare, la celebrazione e la sintesi visiva di un passo in avanti compiuto nella realtà. Speriamo di poter dire domani “per fortuna siamo nel 2011”.