Diciamoci la verità: nessuno si aspettava che la corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul matrimonio omosessuale, lo legittimasse in un colpo solo. Vero è che altrove (come in Canada o nel Massachusetts) organismi analoghi cui era stato chiesto di decidere sulla costituzionalità del diritto degli omosessuali a sposarsi hanno fatto esattamente questo. Ma in un contesto sociale molto distante dal nostro e in una diversa cultura delle regole. Da noi invece, nella “patria del diritto”, ogni principio è materia di mediazione e contrattazione e alla fine è più facile che tutto si aggiusti alla luce dei contingenti rapporti di forza.
Bisogna perciò rallegrarsi, come in effetti hanno fatto i protagonisti della campagna “Sì lo voglio”, per lo sforzo compiuto dai nostri giudici costituzionali. A lume di naso e di buon senso potevano magari bastare gli articoli 2 e 3 della nostra costituzione, che garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo e l’uguaglianza tra i cittadini a prescindere dalle condizioni personali (vedi l’omosessualità), per dare ragione su tutta la linea ai magistrati e alle coppie gay e lesbiche che si erano rivolti alla corte per chiederle di legittimare le nozze tra persone dello stesso sesso. Immaginiamoci però il pandemonio che si sarebbe scatenato in questa eventualità, data l’ostilità bipartisan verso il matrimonio gay. Dopotutto i membri della consulta non vivono sulla luna e sono consapevoli (c’è chi dice anche troppo) del proprio ruolo di garanzia politica. Così hanno deciso di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. E pur nei limiti di una cultura vecchiotta, ben evidenti nelle motivazioni della sentenza diffusa a metà aprile, hanno detto no alle nozze lasciando comunque aperta più di una porta. A cominciare dalla storica affermazione che alle convivenze omosessuali, incluse tra le formazioni sociali tutelate dall’articolo 2 della carta costituzionale, “spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.
Dei pregi della sentenza parla diffusamente l’avvocato Francesco Bilotta nell’intervista che pubblichiamo qui accanto. Mi concentro perciò sui difetti, con l’intenzione di contribuire al dibattito necessario per proseguire questa battaglia di civiltà. Il principale è che la corte, stabilendo che legiferare sulle unioni omosessuali tocca al parlamento ne sottolinea la “piena discrezionalità”, offrendo con ciò un ghiotto appiglio agli azzeccagarbugli che abbondano alla camera e al senato per procrastinare sine die o limitare al minimo la portata di qualunque eventuale provvedimento. Qualche paletto lo si poteva pure mettere, magari per dire che il vuoto va colmato con urgenza e con sostanza.
Proseguendo nella lettura della sentenza trovo poi un curioso ragionamento che afferma un principio per negarlo subito dopo, facendo piazza pulita degli ultimi sessant’anni di storia. I concetti di famiglia e matrimonio, dicono i giudici, non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la costituzione entrò in vigore e vanno interpretati tenendo conto dell’evoluzione sociale. Non si può però stravolgerli al punto da metterci dentro anche le unioni omosessuali perché i padri costituenti di queste non si occuparono affatto, “benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta”. Ma si ricordano che all’epoca l’omosessualità era comunemente considerata un vizio innominabile o nella migliore delle ipotesi una malattia da curare? Questo genere di argomentazione sembra proprio un ridicolo espediente per disconoscere il carattere evolutivo dei principi costituzionali poco sopra proclamato.
In linea con queste antistoriche elucubrazioni si tira in ballo pure la finalità procreativa del matrimonio per distinguerlo dall’unione omosessuale, espungendo ipso facto dalla scena una bella fetta di realtà contemporanea, dove molti gay, lesbiche e bisessuali danno il proprio contributo al saldo demografico con l’ausilio della natura o delle nuove tecnologie riproduttive, formando nuclei familiari con prole spesso numerosa che non sono certo meno autentici solo perché non hanno gli stessi diritti di quelli benedetti in municipio e in chiesa. Una chiacchierata con l’associazione Famiglie Arcobaleno prima di scrivere la sentenza poteva essere utile. E anche due parole con un gruppo a caso di persone transessuali, che per definirsi tali, secondo l’illuminato parere della corte costituzionale, devono “di regola” per forza sottoporsi all’intervento chirurgico.
Come si evince da queste spigolature ci sono grossi nodi culturali da sciogliere prima che le nostre esistenze reali possano essere comprensibili al senso comune di cui i giudici della consulta si sono resi autorevoli interpreti con la sentenza del mese scorso. Fino ad allora continueremo a vivere in un paese bloccato nel passato e chi ci nega il nostro fondamentale diritto all’uguaglianza, in paesi non lontani dal nostro già quasi diventato banale, continuerà a farlo persino in buona fede.