Conteso da cinema e tv, ma anche romanziere e traduttore, Ivan Cotroneo è uno dei più stimati e prolifici autori dichiaratamente gay. Ecco la sua visione “dall’interno” del sistema televisivo italiano e i segreti del suo metodo di lavoro.

(prima pubblicazione Pride aprile 2010)

 

Sceneggiatore, autore televisivo e musicale, scrittore, traduttore e persino dj. Ivan Cotroneo è davvero un talento proteiforme, adattabile a diversi ambiti con un unico denominatore comune: il fuoco sacro della scrittura. Napoletano di nascita ma romano d’adozione, si definisce di formazione “tecnica” (un diploma in sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia) e a poco più di quarant’anni è diventato uno dei pochi autori dichiaratamente gay contesi dalla tv e dal cinema, riuscendo nel contempo a proseguire un’ammirata carriera di romanziere e traduttore (“bellissimo è la parola” scrisse Fernanda Pivano sul Corriere della Sera quando si infiammò per il suo dolente Cronaca di un disamore). L’ha voluto Ferzan Ozpetek per scrivere a quattro mani la sceneggiatura di Mine Vaganti, ma lui era già camaleonticamente passato attraverso i variegati cinemondi di Corsicato, De Maria, Luchetti e molti altri. E quando in tv un personaggio omosex ha particolare spessore e rilevanza narrativa – vedi l’esemplare papà gay che si rivela al figlio in Tutti pazzi per amore – viene subito da pensare se dietro c’è lui, la penna queer più prolifica del panorama autoriale italiano contemporaneo.
Affabile, diretto e dotato di carismatica comunicativa, Ivan Cotroneo mette subito a proprio agio. Lo contattiamo mentre è impegnatissimo tra conferenze stampa e proiezioni di Mine Vaganti.
Hai collaborato a due sceneggiature di film attualmente in sala, quella di Mine vaganti e Io sono l’amore. In entrambi c’è un coming out, nel primo caso maschile e nel secondo femminile…
Entrambi i film sono in sala nello stesso periodo ma è casuale: Io sono l’amore di Guadagnino era pronto già da un po’. Ferzan aveva questa idea precisa: il coming out dei due fratelli doveva essere il primo elemento narrativo. Da lì è stata costruita tutta la famiglia partendo dal presupposto di come questa rivelazione faccia esplodere verità nascoste. Era la prima volta che collaboravo con Ozpetek, è stato meraviglioso. È un regista che ho sempre apprezzato molto da spettatore. Abbiamo lavorato sulla sceneggiatura per più di un anno, e tre mesi prima dell’inizio delle riprese sono cominciate le letture con gli attori a Roma, intorno a un tavolo. Il copione si è arricchito molto. Poi abbiamo passato dieci giorni di prove con gli attori scena per scena sul set, nei posti dove avremmo girato. C’è stato un rapporto continuo, io ero spesso sul set, Ferzan mi ha fatto davvero sentire parte del lavoro. Con Guadagnino è stato diverso. Abbiamo lavorato insieme ma quando è partito per il set, lì ha fatto sua la sceneggiatura. Lo spazio principale del racconto è dedicato alla relazione tra Tilda Swinton e Edoardo Gabriellini, una donna e un uomo molto più giovane. Ma è importante il rapporto tra madre e figlia: le scoperte che fa la madre sulla figlia ma anche lo scambio di segreti aiutano entrambe a essere se stesse con più consapevolezza e serenità. Sono molto affezionato allo sguardo finale che si scambiano, riconoscendosi donne libere e indipendenti capaci di autoaffermarsi.
Con Corsicato hai potuto avvicinare uno stile molto diverso, comico-grottesco…
Con Pappi ho cominciato come assistente volontario a Libera e poi mi ha assunto per I Buchi Neri. Sono arrivati quindi l’episodio de I vesuviani intitolato La Stirpe di Iana e Chimera. La bellezza del lavoro di sceneggiatore è la possibilità di entrare in un mondo con cui ho affinità ma è diverso dal mio. Sono esperienze differenti, ma devo dire che ho lavorato sempre con belle persone. L’importante è trovare una chiave per dialogare con tutti.
In L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi c’è uno dei personaggi gay più belli degli ultimi anni del cinema italiano, il fratello del protagonista a cui dà consigli sentimentali. C’è molto di romanzesco, è riconoscibile il tuo stile letterario…
Maria Sole è diventata una mia amica, aveva letto Cronaca di un disamore e la temperatura emotiva del mio romanzo le era piaciuta molto. Abbiamo scritto il soggetto insieme, incentrandolo sul rapporto così viscerale tra i due fratelli ma comunque anche molto naturale. È un personaggio che è un po’ l’anima del film, rischia la vita e propone una sua verità sull’amore. Tengo molto a quel personaggio, il rapporto tra Carlo e Yuri era in effetti centrale. Michele Alhaique secondo me è uno degli attori più bravi della sua generazione.
Tu sei uno dei pochi autori dichiaratamente gay in Italia. Raccontami la tua esperienza dall’interno del sistema televisivo: è difficile proporre personaggi queer come per esempio il papà che fa coming out in Tutti pazzi per amore?
Abbiamo trattato il coming out del padre in Tutti pazzi per amore non con l’idea di inserire arbitrariamente una storia omosessuale nella prima serata di Raiuno ma perché funzionava a livello narrativo. Non abbiamo avuto problemi coi capistruttura Rai. Il nostro intento è stato affrontare il tema in maniera non banale. Nelle sitcom televisive italiane si può effettivamente riscontrare un approccio diverso ai temi queer rispetto al passato: ora ci sono vari personaggi omo interessanti come in Io e mio figlio o il ruolo di Castellano in Commesse, un antesignano importante.
E nel remake di Sissi andato in onda di recente su Raiuno, al quale hai lavorato, è emersa una componente queer?
Direi di no. Sissi non è mai stata un’icona queer ma piace soprattutto alle fan, a un pubblico femminile. Sissi è stato il motivo per cui mia mamma faceva scuocere sempre la pasta durante la festività quando ritrasmettevano il classico con Romy Schneider. L’ho visto almeno 150 volte! Sono stato chiamato a riscrivere una versione moderna, popolare, che piacesse soprattutto alle ragazze. I nostri riferimenti erano la biografia storica ma anche l’immagine del mito, ossia grandi amori e balli. Ma i personaggi erano datati, la stessa protagonista aveva un carattere piuttosto bidimensionale e la sua modernità stava nell’idea di una ragazza che non permette agli altri di decidere del proprio futuro e vuole disporre da sola anche di quello dei suoi figli.
Nei reality, ma anche negli show paragiornalistici italiani, impera però un trash che occhieggia alla cultura gay a livelli estremamente bassi, dove il mondo omosex resta confinato al vezzo e al lazzo. Sembra che comandino gli scenografi, i costumisti e i ballerini più che gli autori… Sei d’accordo?
È abbastanza vero quello che dici ma la struttura del reality fa danni a tutti, anche al maschio eterosessuale e con maggiore enfasi alla donna non gay bella e procace. Le figure etero non ne escono meglio. Comunque sì, lo trovo agghiacciante. Anche un certo tipo di ragazzo semplice e non colto viene chiamato solo per essere deriso. Sono svilenti per la dignità di tutte le persone. Il gioco consiste nella categorizzazione: c’è la bella e scema, il macho e rozzo, l’omosessuale e checca. È terribile per chiunque.
Hai dichiarato di aver riletto recentemente il tuo romanzo Il re del mondo e di aver trovato che la tv attuale “è molto più dura”. In che senso?
Pensavo soprattutto ai casi di attori europei estromessi dalle fiction che si sono ammazzati per il senso di vuoto in cui si sono trovati. C’è un imbarbarimento della società dello spettacolo, sta vistosamente peggiorando.
E della tv americana, in cui c’è indubbiamente più spazio per i prodotti che hanno un target dichiaratamente queer, che ne pensi?
Amo molto i serial americani, sul versante della comicità adoro Friends e Will & Grace ma vedo anche cose molto diverse da quello che scrivo come 24 e Lost. Ho apprezzato in particolare una serie inglese rifatta poi in Canada sui rapporti di coppia, Cold Feet.
Vedremo mai un telefilm italiano interamente gay alla stregua di Queer As Folk?
Ci potrà essere se saremo abbastanza bravi da scriverla in modo originale. Bisogna trovare modi nuovi di raccontare l’omosessualità e i personaggi queer, non so se è un traguardo avere una serie tutta gay magari ricalcata su un’altra fatta all’estero.
Scrivi di amori gay evitando il sentimentalismo, attraverso una scrittura diretta e densa. Che cosa ha rappresentato l’attività di romanziere per la tua identità?
Per la mia identità ha significato moltissimo, non solo quella sessuale. Ho capito molte più cose di me stesso, dei rapporti con i miei amici e la mia famiglia. Scrivere è uno strumento terapeutico potentissimo. Io arrivo da una formazione tecnica, ho studiato da sceneggiatore, ma spesso la scrittura va in qualche modo fuori controllo. È un metodo simile a quello analitico.
E che rapporto hai col grande Michael Cunningham di cui sei il traduttore ufficiale?
Ho un rapporto di grandissimo affetto. Quando sono stato a New York per scrivere la revisione di un testo mi ha accolto la segretaria di Michael dicendo che lui era fuori città, mi ha lasciato le chiavi del suo studio invitandomi a lavorare lì. Sono stato ospite di Michael per un mese, lui è molto generoso. È davvero un privilegio poter tradurre i suoi romanzi. L’esercizio della traduzione mi ha insegnato ad applicare sia la cura che la pazienza.
Stai scrivendo un nuovo romanzo, mi puoi anticipare qualcosa?
Ne parlo con molto pudore. È un racconto diviso in tre parti con altrettanti protagonisti che raccontano la vicenda dal loro punto di vista. Sono tre adolescenti e un insegnante che abitano in una piccola città del centro Italia. Sarà una storia d’amore, violenza e pregiudizio.
Un’altra delle tue passioni imprescindibili è la musica…
Sì, non riuscirei a scrivere senza musica. Qualche anno fa ho anche scritto un brano per Syria, Senza regole, e mi diletto come dj. Creo precise playlist mentre lavoro, in base anche al tono di ciò che sto scrivendo: per Cronaca di un disamore erano canzoni piuttosto tristi! Adoro in particolare Antony and the Johnsons e le colonne sonore di Joe Hisaishi, il compositore di Takeshi Kitano.