Grazie al diversity management, in società e imprese italiane si affaccia la tutela del lavoratore glbt e la promozione delle differenze. Ma che cosa cambia realmente?

(prima pubblicazione Pride marzo 2010)

 

No ai pregiudizi, via le discriminazioni e promozione di tutte le diversità: le grandi e piccole aziende italiane sembrerebbero ormai il posto giusto per gay e lesbiche. Sono sempre più numerose infatti le società che garantiscono, nero su bianco, la tutela e la non discriminazione per “orientamento sessuale” nei codici di condotta o nelle policy aziendali che sono regolamenti, approvati dai consigli di amministrazione, che raccolgono i valori condivisi dalle imprese. Naturalmente poi tra teoria e pratica c’è come spesso accade un certo divario, specialmente in un paese come il nostro. Vediamo comunque quali sono le novità degli ultimi anni, per poi analizzare i problemi di applicazione delle nuove regole nella realtà.
Partendo dal gotha delle imprese italiane troviamo ad esempio che Eni vieta “qualsiasi forma di violenza o molestia (…) riferita alle diversità personali e culturali” come “alludere a disabilità e menomazioni fisiche o psichiche o a forme di diversità culturale, religiosa o di orientamento sessuale.” Segue, solo di poco inferiore per valore di mercato, Intesa San Paolo tutta impegnata a “eliminare ogni discriminazione e a rispettare le differenze di genere, età, razza, religione, appartenenza politica e sindacale, lingua o diversa abilità”. Autogrill va anche oltre, con l’adesione alla campagna dell’unione europea “Sì alla diversità, no alle discriminazioni” e la diffusione ai dipendenti di materiale informativo sul tema. Ancora: grandi gruppi come Enel, Telecom, Unicredit, Barilla, Edison (che non discrimina “in base alla sessualità”), Assicurazioni generali, solo per citare il “made in Italy”, e numerosissimi altri, brillano per l’impegno, sulla carta, nella lotta alla discriminazione e per l’offerta di posti di lavoro accoglienti a ogni diversità.
Ma la battaglia ai pregiudizi e all’omofobia sembra aver conquistato anche meno prevedibili settori di mercato, fino a diventare quasi una moda aziendale. Infatti anche imprese piccole e medie, statali e non, dichiarano la loro vicinanza a ogni “orientamento sessuale”. Tra le centinaia l’Asa, Azienda servizi ambientali di Livorno o la Manutencoop di Bologna, che offre servizi ambientali per l’igiene e il verde, o, ancora, la Alma Petroli di Ravenna che opera nel settore della raffinazione del petrolio. Via via non discriminando si arriva sino all’Università Ca’ Foscari di Venezia o allo Junior Football Club di Colorno, in provincia di Parma, una società calcistica che offre ad atleti e dirigenti “pari opportunità senza discriminazioni di razza, sesso, età, orientamento sessuale”.
Se già può sembrare di assoluta avanguardia un’attenzione specifica alla tutela dei vari possibili orientamenti sessuali delle giovani promesse dello sport, ancora più incredibile nel panorama nazionale appare la presenza di società che valorizzano le diversità tanto da considerare un punto di eccellenza l’impiego di lavoratori gay. È soprattutto il caso di multinazionali straniere, che operano spesso anche in Italia, come Ibm che negli Stati Uniti sponsorizza eventi, seminari glbt, o la Morgan Stanley che attira lavoratori gay con lo slogan “la diversità non è un obbligo, è un’opportunità”, o la General Electric, colosso del settore dell’energia che promuove gruppi aziendali di lavoratori gay, lesbiche e trans.
È il “diversity management”, una modalità di gestione aziendale che si sta affermando negli ultimi anni, che vuole valorizzare appieno il contributo dell’impiegato “diverso” al raggiungimento degli obiettivi aziendali eliminando stigma e pregiudizio sul posto di lavoro. Insomma buone pratiche, che stando agli studi di settore si riverberano in positivo sulla produttività e, quindi, sui risultati economici delle imprese.
Così, “la strada intrapresa dalle grandi società (soprattutto statunitensi ed europee), non è più solo quella della mera accettazione del diverso. Sempre più spesso si parla di inclusion, inclusione”, spiega Angelo Caltagirone, di Egma, l’associazione europea di manager gay e lesbiche.
“In concreto”, continua, “le aziende utilizzano gruppi di impiegati gay e lesbiche, come in Svizzera all’Ubs. Ancora, si dotano di responsabili lgbt alle risorse umane attivi ad attirare possibili collaboratori tra gay e lesbiche. Poi l’azienda fa promozioni concrete, sponsorizza il pride o investe con inserzioni sui media lgbt. L’intento è quello di creare i presupposti perché il lavoratore sia visibile e sereno sul posto di lavoro. Alcune aziende offrono benefici ai partner degli omosessuali”.
Nel luglio 2009 la Camera di Commercio Internazionale Gay e Lesbica (in collaborazione con Egma e IIga) ha diffuso i dati sull’eccellenza aziendale nel diversity management. Al vertice della classifica British Telecom che accorda ai propri dipendenti con partner dello stesso sesso gli stessi benefici di cui godono i dipendenti eterosessuali. Bt è marcata stretta da Ibm e da The Dow Chemical Company, un’azienda chimica. Nessuna impresa italiana è in classifica: “Ibm Italia e Diesel hanno incominciato con le politiche di inclusion, ma siamo veramente all’inizio. In Italia qualcosa lentamente si sta comunque muovendo e, già da quest’anno, potremmo avere anche qualche azienda italiana in classifica”, sottolinea Caltagirone.
È d’accordo Stefano Basaglia, collaboratore dell’Osservatorio sul Diversity Management dell’università Bocconi di Milano: “Le imprese italiane non sono un posto per donne, per giovani e per gay. Il modello dominante è quello del maschio eterosessuale, ultra-quarantacinquenne. Le imprese italiane stanno iniziando a scoprire il diversity management” ma “l’orientamento sessuale e il tema dell’identità di genere vengono all’ultimo posto”.
In Italia, aggiunge lo studioso, la gestione aziendale del diverso è tradotta con “una politica degli accenni, ossia di un timido affacciarsi sul mondo del diversity management in cui convivono forze a favore e forze contrarie” oppure con “una politica della retorica, ossia una politica in cui vi è una separazione tra quanto enunciato formalmente (nelle carte dei valori, per esempio) e quanto realizzato nella sostanza. Sono stati avviati alcuni programmi, ma non azioni concrete e criteri definiti”. Insomma un diversity management all’amatriciana… Perché?
Per Basaglia, “manca un ecosistema istituzionale (normativo, sociale e culturale) di contorno. In Italia, il tema dei diritti civili e della non discriminazione è sempre rimasto sullo sfondo”.
Anche la “timidezza” dei gay, che non si rendono visibili sul lavoro, non aiuta a porre direttamente alle aziende il problema delle difficoltà di gay e lesbiche. Tra circa duecento dipendenti della General Electric Italia, Mario Moisio, era l’unico membro della Glbta alliance, il gruppo gay aziendale: “Non ho mai avuto problemi con i colleghi, nelle grandi aziende nessuno si arrischia ad andare contro le policy aziendali. Con Glbta alliance ho iniziato a fare qualcosa di più, tipo presentare le iniziative glbt in azienda. Sono stato poi invitato direttamente dal responsabile risorse umane a presentare le iniziative del gruppo gay internazionale a tutto il gruppo dei dirigenti italiani”.
Purtroppo Moisio è una mosca bianca, conferma Ivan Scalfarotto, consulente di multinazionali e vice presidente del Pd: “In Italia non si fa coming out in azienda. Non c’è alcun incentivo… nessun eventuale benefit per il partner. La sessualità è legata alla socialità e nelle aziende moderne è difficile lasciare fuori la socialità dall’ufficio. Si va a cena con colleghi e fornitori, ci sono eventi comuni, e si parla della propria vita. L’omosessuale che non lo fa non si integra e subisce rallentamenti di carriera.
Stiamo cercando di promuovere la visibilità gay in azienda con una associazione tra imprese che si occupi di questi temi anche in Italia. Le aziende hanno tutto l’interesse a trattare questi temi: hanno bisogno di talenti e non possono discriminare se il talento è etero o gay, nero o bianco”.
“Il coming out in azienda porta a un vantaggio competitivo nella creazione di valore. Nelle aziende di eccellenza la questione di essere nascosti non si pone e, soprattutto all’estero, arriviamo al paradosso che i collaboratori sono dichiarati sul lavoro e non in famiglia”, aggiunge Giampaolo Colletti, autore insieme a Andrea Notarnicola di Abbabusiness. Scopri il lato b delle imprese (Edizioni Croce). Ma le imprese italiane fanno orecchio da mercante e quel che ci resta sono allora solo retoriche policy aziendali. Qual è la loro reale utilità?
Scuote la testa Salvatore Marra, della Cgil-Nuovi diritti di Roma. “Dal punto di vista sindacale le policy aziendali sono poco efficaci. Per carità, sono importanti perché fanno cultura, ma valgono solo come dichiarazioni di intenti. Per le grandi aziende c’è l’articolo 18 che tutela i lavoratori, ma in Italia la maggioranza delle aziende è medio-piccola e i lavoratori non hanno nessuna protezione in caso di discriminazione per orientamento sessuale. Non parliamo poi dei precari che non hanno proprio nessuna tutela”.
“In un periodo come questo – continua Marra – quasi per automatismo le persone più deboli sono le prime a uscire dal mercato del lavoro, la crisi economica ha avuto su questo un impatto durissimo. Sono decine le persone che si rivolgono ai nostri uffici. Dall’insulto, alla discriminazione al mobbing. Di più: i processi sono lunghissimi e costosi in termini economici e umani e il lavoratore paga sempre il prezzo più caro”.
Ma non c’è limite al peggio: grandi imprese italianissime come Luxottica, Benetton, Finmeccanica, Fiat, Mediaset (al contrario della Rai), e Poste italiane arrivano sino a omettere bellamente dalle policy aziendali la non discriminazione per orientamento sessuale. È un abbagliante biglietto da visita da impresa inchiodata al secolo scorso. Per il futuro italiano del diversity management c’è ancora tempo, con molta, troppa calma.