Il più famoso fotografo del glam rock e del primo punk inglese degli anni Settanta apre i suoi archivi, e con incredibili immagini mai pubblicate in precedenza un film culto torna a parlarci di sé.

(prima pubblicazione Pride febbraio 2010)

 

 

Il suo nome è indissolubilmente legato al David Bowie androgino ed etereo dell’era di Ziggy Stardust, ma Mick Rock in quegli anni ha anche creato le copertine per il secondo lp dei Queen, da cui si trasse in seguito l’idea per il video di Bohemian Rapsody, e di Transformer di Lou Reed in cui è presente Walk On The Wild Side, tanto per citare due canzoni entrate nella storia.

Invitato sui luoghi delle riprese di The Rocky Horror Picture Show con totale libertà d’azione come “fotografo speciale” dal regista Jim Sharman, circa 300 scatti dell’intera produzione effettuati sui vari set e dietro le quinte, quasi tutti mai visti prima, sono stati finalmente pubblicati in un patinato libro con testo bilingue inglese e tedesco dalla casa editrice Schwarzkopf & Schwarzkopf. Vi avvertiamo: a un fan la visione di queste immagini potrebbe provocare un collasso!

Il film, del 1975, è tratto da un musical del 1973 che ebbe un incredibile successo di critica e pubblico a Londra e poi a Los Angeles, mentre fu stroncato a New York. Parodia delle pellicole di fantascienza degli anni ‘50 e di quelle dell’orrore di serie B degli anni ’60, mescolate con del sano rock ‘n roll prima maniera, non era teatro politico ma come disse l’autore Richard O’ Brian in un’intervista a un quotidiano dell’epoca “è tutto pensato solo per intrattenimento senza messaggi seri o commenti”.

Il protagonista è uno scienziato pazzo che si presenta al pubblico come un dolce travestito bisessuale e che si è costruito una creatura bellissima da amare carnalmente, ovvero un aggiornamento del mito di Frankenstein. La storia si sviluppa però intorno ai temi della fluidità della sessualità umana, del primato dell’amore e del desiderio sull’identità di genere e sulla morale convenzionale. Lo spettacolo propone quindi un mondo utopistico, dove chiunque può essere, fare e “farsi” quello e chi più gli va a genio. Un fantastico contenuto di speranza e incoraggiamento per chi non rientri nella norma, gay o eterosessuale o via di mezzo che sia, che resta ancora assolutamente valido. E pur senza mai citare una parola come “omosessualità” che allora poteva apparire terrificante, il Rocky Horror diventa una delle più potenti espressioni della liberazione sessuale di quegli anni.

Per la cultura anglosassone di quel periodo, comunque, la trama racchiude in sé un profondo effetto nostalgia basato sui ricordi, perché mette in risalto il contrasto tra un’epoca pre-pillola anticoncezionale in cui non si sa come abbattere una onnipresente repressione, e quella post-figli dei fiori che celebra invece la libertà e dove l’ambiguità e una sfrontata sensualità sono alla moda. In mezzo a questo c’era la musica, che era diventata un potente mezzo espressivo per manifestare la protesta.

Quando il film uscì nelle sale, con modifiche e adattamenti persino nei costumi per rendere la storia più lineare e i personaggi più completi, le congiunzioni astrali furono però sfavorevoli: il pubblico nordamericano preferiva farsi terrorizzare dalle mandibole de Lo squalo di Steven Spielberg, e i nostri eroi ed eroine non attrassero quasi nessuno. Sarà una geniale idea di un esperto di marketing della 20th Century Fox a salvarlo dall’oblio e a metterlo sulla strada della gloria eterna, rendendolo un’opera di culto e anche, inconsapevolmente, una colonna miliare della cultura queer.

Nel 1976 si decise di distribuirlo nei circuiti statunitensi dei film di mezzanotte, destinandolo a un pubblico giovane. Lentamente, grazie al passaparola e alla creatività della gente che, complice, torna a rivederlo ogni week-end, nasce un vero e proprio spettacolo nello spettacolo. Il Rocky Horror diventa un rito settimanale a metà tra la festa di carnevale (perché si va al cinema rigorosamente vestiti come il proprio personaggio preferito) e la messa cantata dove non ti diverti se non conosci le canzoni e le frasi inventate da ripetere al momento giusto verso lo schermo. Per esempio, dopo “It’s not easy having a good time” (non è facile divertirsi un po’) è di rigore urlare “Try Disneyland” (prova ad andare a Disneyland).

E se sei un maschio eterosessuale che si presenta in sala in calze a rete e tacchi a spillo per poi salire sul palco a ballare nessuno farà una piega, forse perché secondo Tim Curry, l’attore principale, il dottor Frank-N-Furter è solo un “big bloke in drag” (un ragazzone vestito da donna), ma in realtà nemmeno travestito, quanto piuttosto in biancheria intima e questo lo rende assurdamente maschile”. E quando canta mellifluamente con voce baritonale “Give yourself over to absolute pleasure” (abbandonatevi al piacere assoluto), e in un accorato appello grida “Don’t Dream It – Be It” (non sognatelo ma siatelo), lancia messaggi che erano e restano decisamente arditi, ma per Richard O’ Brian “ognuno sessualmente dovrebbe fare quello che vuole”.

Così, messaggi diretti e indiretti di emancipazione sulla ricerca della propria sessualità e identità arrivarono in posti che azioni politiche più esplicite non avrebbero assolutamente mai raggiunto e questo, lentamente, in tutto il pianeta! Si calcola che fino ad oggi la pellicola abbia incassato più di 200 milioni di dollari, niente male per un’opera che un critico cinematografico definì come “un’accozzaglia di kitsch e trash” sostanzialmente da buttare nel dimenticatoio il prima possibile.

Se ci si chiede come questo sia stato possibile, l’unica risposta valida a qualsiasi longitudine e latitudine è che l’attrazione principale dello show resta l’insieme unico e accattivante di teatralità e baracconate camp, umorismo e buona musica e un poco ortodosso minestrone di stili e periodi storici. I testi delle canzoni, tutte molto orecchiabili, trascinano e collegano le varie scene e sono farciti di citazioni che la scenografia barocca moltiplica a dismisura, rendendone la visione meno semplice e più gustosa di quanto non sembri a prima vista.

Anche per questo non si smette di rivederlo innumerevoli volte. Si parte da Fay Wray, il biondo e malriposto amore di King Kong, e Marlene Dietrich de L’angelo azzurro per arrivare al David di Michelangelo con un’aggiunta di rossetto sulle labbra, smalto per le unghie ai piedi e fallo “rinforzato” rispetto al modello originale… La lista completa sarebbe lunghissima, ma vi diciamo che le labbra rosse che sono diventate il simbolo grafico per eccellenza del film sono ispirate a un quadro di Man Ray e da qualche parte c’è persino un voluto omaggio a Magritte.

Pochi sanno che il regista è gay ed era sostanzialmente al suo primo film, ma avendo curato tutte e tre le versioni teatrali conosceva perfettamente il progetto. Quasi tutti i ruoli principali furono affidati al cast originale inglese, e furono coinvolti nuovamente anche il set designer Brian Thomson e la costumista Sue Blane. Questo incredibile affiatamento è lampante e perdona molte ingenuità che rendono però il film accattivante e ne limano le parti più minacciose. E l’atmosfera di decadenza che ciò nonostante permea tutto provoca una salutare catarsi se solo ci si lascia andare, e a molte persone ha anche cambiato un po’ la vita.

Con il tempo la pellicola ha per fortuna perso molto della sua carica trasgressiva, tanto che è periodicamente trasmessa alla televisione senza problemi o censure. Se poi fosse apparsa in una decade successiva, Tim Curry avrebbe sicuramente ottenuto una nomination come miglior attore protagonista ai premi Oscar per la sua straordinaria interpretazione. Comunque sia The Rocky Horror Picture Show resta uno degli eventi della cultura pop del XX secolo più unici che ci siano, e mostra quanto tuttora siano ipocriti ed effimeri i ruoli imposti dalla prevalente e prevaricante “normalità”. In occasione dei suoi primi 35 anni di vita possiamo solo augurare “Buon compleanno Rocky” e 1000 di questi giorni.