In occasione della presentazione del nuovo album No Place In Heaven, Pride incontra Mika. Una divertente e sincera dissertazione sui miti della cultura gay e i suoi eroi con uno degli artisti più incredibili della scena musicale odierna.

(prima pubblicazione Pride giugno 2015)

 

Esce il 15 giugno No Place In Heaven, quarto disco registrato in studio di Mika. Due anni di lavoro sono occorsi per produrre un album maturo, denso di significati politici, che ancora una volta mette in evidenza la capacità di questo cantante libanese di saper trattare temi importanti, affrontandoli però con la leggerezza delle sue melodie accessibili a tutti.
Dall’inno di liberazione sessuale Boum Boum Boum all’accettazione della propria omosessualità descritta in All She Wants; dal ricordo dei miti (gay) adolescenziali di Good Guys al coraggio di affrontare la sorte con ironia (la suggestiva Last Party racconta le ultime ore di vita di Freddie Mercury). Ma, soprattutto, la consapevolezza che un amore – poiché unico e irripetibile – non potrà mai essere considerato “ordinario” (Ordinary Man). Tutti questi temi, amalgamati alle melodie che ideologicamente ne costituiscono il vettore di trasporto, restituiscono all’ascoltatore una colonna sonora per le prossime stagioni. All’estate, quella che per antonomasia è la stagione dei bollenti amori, Mika ha dedicato Talk About You, una canzone che ricorda dischi d’altri tempi e in cui appaiono riferimenti nemmeno tanto celati (e accreditati) a Sarà perché ti amo e I Only Want To Be With You (resa celebre dall’icona Dusty Springfield). Una ricercatezza resa ancor più sottile nel brano omonimo del disco, in cui è citato il celeberrimo verso “l’amore che non osa dire il suo nome” di Alfred Douglas, amante di Oscar Wilde, per affermare che “non c’è posto in paradiso per persone come noi”.
Al nostro arrivo sul luogo dell’intervista, Mika era amabilmente circondato da uno stuolo di giovanissimi fan cui ha concesso con semplicità e attenzione una speciale lezione di musica. Prima di lasciarsi coinvolgere da Pride e dagli amici del Festival MIX di Milano per i quali ha registrato uno speciale video a favore della loro campagna di crowdfunding, si è sottoposto alle domande pressanti di Famiglia Cristiana. È proprio il caso di dire dall’acqua santa al diavolo…
Mika: “Non ho mai letto riviste di cultura gay in Italia, voi siete i primi… Fantastico”.
Pride: Sì, siamo dei superstiti… (risata generale) In Good Guys canti i tuoi miti gay di quando eri ragazzino, in All She Wants il coraggio di riprendere in mano la propria vita dopo un matrimonio fallito come eterosessuale. Per noi il tuo è un disco molto politico.
È giusta la vostra osservazione: una psicologa lo ha analizzato su Wired Magazine arrivando ad affermare che questo è un lavoro quasi politico e comunque molto legato alla politica della sessualità. In All She Wants parlo anche di mia madre. Ho sempre avuto paura di ciò che lei pensasse di me, di ciò che lei e io non avevamo il coraggio di dirci. Io credo che certi argomenti, se trattati in una canzone pop, risultano molto più semplici che non a parole.
Però con tua madre è andato tutto bene…
Sì, ma c’è sempre questa, come dire, paura. C’è l’idea che in mia madre sussista sempre una piccola percentuale del desiderio di avere un figlio con una moglie e con tanti bambini. Questo conterà forse per il dieci per cento, ma i dettagli sono più interessanti del restante novanta; per cui è bello scrivere canzoni sul dieci per cento di dubbio (ride).
Hai parlato di politica della sessualità. Si può dire che Boum Boum Boum sia un inno alla libertà sessuale?
Si, è una canzone impegnata, nonostante il testo e la musica appaiano semplici. Anche se la stampa francese è stata molto dura nei miei confronti, arrivando a creare una polemica, è diventata una sorta di inno dappertutto. Significa che con leggerezza puoi affrontare anche temi importanti.
Appunto, la tua musica è molto accessibile, ma al contempo i testi sono pieni zeppi di riferimenti e citazioni colte: Alfred Kinsey e Ralph Waldo Emerson solo per citarne due da Good Guys. Come coniughi queste due facce del tuo essere artista, musica e testi?
Per me l’immediatezza è, metaforicamente parlando, una sorta di pistola. Il messaggio invece, il pensiero, è la pallottola che scorre in canna. Io sono sempre stato un osservatore che guarda gli altri da fuori, lo affermo anche in Good Wife. Negli anni ho scoperto che la melodia ha una sorta di potere. Non è una cosa sporca, è una cosa fantastica perché è la chiave della libertà. È un microfono per la mia opinione e per la mia voce. Senza la melodia non avrei avuto lo stesso potere di esprimermi. Quando ero più giovane ero disperato, particolarmente a quattordici o quindici anni, e la melodia costituiva la mia valvola di sfogo. Ho un rispetto profondo per la musica pop, per me non è una cosa sporca, un po’ come i colori nella moda o nell’arte che possono assumere un carattere pornografico. La melodia è l’equivalente nella musica, può assumere contorni molto pornografici. Ma quando la melodia è utilizzata in un contesto più sincero, anche più preciso, può diventare fantastica, come i colori. Dall’incontro tra il nero delle parole e i colori della musica nasce il grigio, che descrive la realtà delle cose. L’amalgama tra questi elementi rende il messaggio più accessibile.
Se in Good Guys fai riferimento ai tuoi miti adolescenziali, com’è il tuo rapporto con le icone di oggi?
In Good Guys non ci sono solo dei miti gay, ma anche gay “ordinari” e “presunti”, come Alfred Kinsey. Al suo tempo sarebbe stato tutto molto più difficile per uno scienziato effettuare una ricerca come la sua, dichiarando la propria omosessualità. Non sarebbe stato considerato serio. Il titolo originale del brano era Where Have All The Gay Guys Gone. L’intenzione è quella di provocare i gay con una sorta di atto d’accusa. Se dovessi cercare delle icone direi che ci troviamo in un periodo di transizione tra il vecchio sistema dell’informazione, dei media, internet e la nuova realtà che non è ancora arrivata. Ora è più difficile individuare un’icona. La cosa che mi fa un po’ paura è che oggi tutti i punti di riferimento, i grandi provocatori sono tutti legati all’establishment, alla condizione materialistico. Per questo mi chiedo: dove sono tutte queste icone che sono state importanti nella tua vita? Non solo fisicamente, ma dentro di te? Avresti il coraggio di essere un esempio come loro per il resto della tua vita?
Uno dei due video per Boum Boum Boum è molto cinematografico, pieno di citazioni: da James Bond agli spaghetti western a Barry Lyndon di Kubrick. La musica fu un potente strumento di cambiamento culturale negli anni ’60 e ’70 con le canzoni di protesta, la liberazione sessuale del glam rock e la disco music. I film, almeno per il mondo gay, svolsero questo ruolo negli anni ’80 e ’90 dando una visibilità più autentica alla nostra comunità. Secondo te il cinema è stato importante quanto la musica?
Direi al pari della musica. E anche la televisione, perché ti permetteva di pensare: io sono come loro, e loro hanno una vita normale. Hanno la facoltà di progettare e di immaginare la possibilità di una vita normale. Per tutta la gente che si sente emarginata dalla vita, il cinema è stato ed è estremamente importante e utile.
Le recenti prese di posizione di Elton John e Ricky Martin nei confronti delle dichiarazioni di Dolce e Gabbana ci pongono la questione se gli artisti gay debbano solo parlare tramite la loro arte o se è importante che esprimano una loro opinione politica in quanto la loro voce può essere molto potente. Tu cosa ne pensi?
Il soggetto è molto importante. Secondo me l’idea di una famiglia è molto semplice: quando parliamo di famiglia parliamo di amore. Non c’è un amore tradizionale, non esiste, non funziona così l’amore. L’aggettivo tradizionale è molto pericoloso, in tutti i sensi, culturalmente e politicamente. Probabilmente puoi parlare di “patatine fatte in maniera tradizionale”, oppure per il formaggio… (riflette). Sì, il formaggio tradizionale funziona molto bene… (risata di tutti i presenti). Ma il concetto di famiglia tradizionale è un falso, un’idea pericolosa. Sono altri i problemi: abusi psicologici, sessuali, problemi economici, bullismo, l’educazione sessuale… Questi problemi esistono sempre, la tradizione non aiuta a risolvere questi problemi. Solamente l’amore può farlo. Dove c’è amore si trova una soluzione a tutti questi problemi che sono le più grandi sfide per tutte le famiglie; secondo me questa è l’unica cosa che è importante. L’unica cosa che politicamente dobbiamo difendere e non il modo in cui le persone hanno i bambini.
Noi siamo rimasti impressionati dagli interventi di Elton John e Ricky Martin a riguardo…
Perché impressionati?
Perché siamo in Italia!
Io ho posato per una copertina di Vanity Fair un anno e mezzo fa il cui titolo recitava “Gay e padre, perché no?”. Intenzionalmente io volli sembrare come il protagonista in American Psycho, il romanzo di Bret Easton Ellis, e parlai di come fosse una decisione cosciente essere al contempo gay e padre, il playboy super conservatore e liberale. Non credo vi sia nulla di sbagliato in tutto ciò. Credo che il governo debba proteggere e assistere la procreazione in vitro e supportare le coppie, soprattutto le donne che non hanno ovuli fecondi. I potenziali abusi del sistema sono incredibili e l’unico modo per proteggere dagli abusi della fecondazione in vitro è difendere legalmente e burocraticamente le persone che desiderano avere bambini. Non è un punto di discussione, è solo una questione di responsabilità ed etica, ma la questione non è su a chi è permesso di avere figli, ma su come proteggere tutti quelli che li desiderano e chi li porta in grembo.
Skin, tua prossima collega giudice a X Factor, in un’intervista ci disse che un talent show è una strada molto difficile perché parti dal nulla ed esplodi e se non sei in grado di imparare molto rapidamente sparisci. Che consiglio daresti a un giovane per restare a lungo nell’attuale mondo dello show business se il talento da solo forse non basta?
Per me la preparazione e la disciplina sono fondamentali. Solo la disciplina può darti la voglia di prepararti quando non c’è una ricompensa immediata. Oggi carichiamo una foto su Instagram e aspettiamo la reazione. Dov’è la ricompensa per questo piccolo sforzo? Quali sono i commenti? La iper-reattività è una cosa controproducente nel processo artistico ed è anti-creativa. Essere troppo reattivi è una sorta di cancro creativo. X Factor è solamente un motore per mettere in luce un po’ di talento, che però matura poco a poco. Ci vuole disciplina e anche un mix di intelligenza e tenacia; sono qualità importanti in questo contesto così ferocemente competitivo.