Nel 2002, nello storico corteo della Cgil in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, un pride particolarmente esuberante aveva sfoggiato per le strade di Roma tutta la sua formidabile identità rainbow.
Una forte penalizzazione sul lavoro in Italia per gay, lesbiche, trans e intersex è in primis imposta direttamente dalla legge e non è accettabile che si creino nuovi presupposti.
Per di più il riconoscimento dei diritti civili è umiliato da una discussione parlamentare pressoché assente o, quando presente, pavida, pervasa dalla non conoscenza e inchinata alle ingerenze delle gerarchie vaticane.
Forse tutto questo accade non per reale convinzione e appartenenza, ma per interessi assai terreni, mentre per fortuna di recente se si è fatto qualche passo avanti è solo grazie all’intervento di qualche tribunale.
Le famiglie omoparentali, per esempio, “non esistono” e pertanto tutto quello che nei contratti è accreditato alla famiglia legalmente riconosciuta si perde.
Lo Statuto dei Lavoratori, che contiene l’articolo 18, fa parte di un sistema di tutele fondato su un presupposto di diseguaglianza economica e di potere tra i contraenti.
Quell’articolo ne è parte significante, difende “libertà e dignità” e cioè qualcosa che non avendo prezzo, non può trovare nel risarcimento in denaro alcun riscatto. Lo sanno bene quanti hanno sperimentato sulla propria pelle certe subdole discriminazioni legate al proprio orientamento sessuale o all’espressione di un’identità di genere “non conforme”.
Se al datore di lavoro, magari affiancato da qualche collega opportunista e interessato, per ignoranza e preconcetto, per omo-transfobia, non sta bene avere nel proprio staff delle persone omosessuali e transessuali, non sarà mai troppo difficile dimostrare qualche mancanza a carico della persona di cui ci si vuole liberare. Non sarà, di conseguenza, neanche troppo difficile licenziare chi non adegua se stesso al vaneggiamento del perfetto etero tuttofare, yes-man o yes-woman, soprattutto ovviamente maschio. Poi tanto si vedrà…
I processi costano cari e, alla fine, l’insussistenza del motivo di licenziamento resterebbe punita con un semplice risarcimento monetario.
Allargando l’orizzonte, inoltre, c’è da chiedersi quanto i sostenitori dell’abrogazione dell’articolo 18 siano sinceri nel negare la difficoltà di far giudicare un licenziamento come discriminatorio in quanto a carico di una donna e magari in prospettiva di una madre, di un sindacalista, di chi ha idee politiche non gradite o di chi non si rende a totale servizio del datore di lavoro, oltre che ovviamente di gay, lesbiche e trans.
Si ripete costantemente che l’articolo 18 altro non sia che un utile deterrente, che in Italia il numero dei casi in cui è richiesto e applicato sono rari.
Si ripete costantemente anche che l’articolo 18 è un simbolo o un totem e allora si deve pensare che, secondo la presunzione di chi si batte per abolirlo, l’economia di un Paese rifiorisce solo se lavoratori e lavoratrici sono considerati dal datore di lavoro delle pedine o peggio delle marionette obbedienti da liquidare a suo arbitrio?
La riforma Fornero di due anni fa, aveva già abbattuto in modo considerevole la funzione preventiva dell’articolo 18, ma aveva in ogni caso lasciato al giudice del lavoro la possibilità di ordinare il reintegro in casi definiti.
A differenza delle banalità che ci rifilano quotidianamente stampa, media e purtroppo molti politici, l’Italia non è il solo paese in Europa a prevedere il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.
L’analisi comparata realizzata dai ricercatori di Italia Lavoro, pubblicata il 29 settembre, dimostra, infatti, che “la reintegrazione nel posto di lavoro, sia pure con modalità diverse, è applicata anche in altri paesi dell’Unione europea”: Austria, Germania, Grecia, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia e Gran Bretagna.
Tutti i paesi che contemplano la possibilità di poter tornare al proprio posto di lavoro, se licenziati senza giustificazione valida. Anche in Francia, Finlandia e Lussemburgo c’è il diritto al reintegro nel proprio posto di lavoro, se pure a condizioni meno vincolanti. In tutti i casi, come in Italia, a decidere è un giudice.