Trent’anni senza Michel Foucault. Non certo senza le sue idee, che sono ovunque: pochi pensatori hanno avuto un’influenza vasta e duratura quanto lui. Ma l’uomo se n’è andato prematuramente quando aveva solo 57 anni, lasciando incompiuto il suo lavoro più importante: non sapremo mai come sarebbe andata a finire la sua Storia della sessualità. Qualcuno fantastica che il manoscritto del quarto volume esista da qualche parte: il mistero è intrigante quanto quello della parte della Poetica di Aristotele dedicata alla commedia. Forse un giorno Umberto Eco ci scriverà sopra Il nome della rosa 2.
Ironia della sorte, Foucault è morto nel mese del pride, anzi proprio nei giorni in cui ricordiamo Stonewall (e qualcuno Judy Garland). Fu una delle prime vittime illustri dell’Aids. Un anno prima di Rock Hudson, per intenderci. Dico ironia della sorte perché sono in molti, oggi, a confondere Foucault e queer theory, e a far coincidere la seconda con quell’essenzialismo che giustifica il non volersi definire e il rifiuto di qualsiasi identità, causando la dispersione delle energie militanti (già poche, in verità) con l’apertura dell’arena politica a tutte le vittime dell’eteronormatività. Eterosessualità compresa, perché pure gli etero alle volte non ne possono più. Non è difficile capire perché molti militanti gay e lesbiche non proprio di primo pelo vedano male la queer theory, e alcuni anche Foucault, che considerano il suo padre putativo.
In quanto militante apertamente gay e studioso convinto che scrivere bene significa scrivere per farsi capire, sono fra quelli che hanno qualche problema con i teorici queer, le loro frasi inutilmente chilometriche e le loro ricadute sul piano politico. L’alfabeto lo conosco e non mi occorre farne il ripasso integrale ogni volta che vengo messo di fronte a ciò che è diventato negli anni il fu “lgbt” con tutto il resto in coda. Confesso ad esempio la mia perplessità nel leggere un manifesto per il pride milanese a sostegno degli asessuali.
Si confondono disagio culturale e persecuzione sociale, pressioni ambientali ed effettiva mancanza di diritti, violenze occasionali e soprusi sistematici, senza contare che si traccia un parallelo tra l’“omo-romanticismo” e l’omosessualità, come fossero cose distinte (ma non abbiamo passato decenni a spiegare al mondo che l’omosessualità non è una questione di solo sesso?). Queste mi sembrano sconfitte politiche, segni di smarrimento, di confusione intellettuale e di assenza di lucidità strategica.
La frittata ormai è stata fatta ma Foucault, per me, è ed è sempre stato un’altra cosa. Oltretutto dubito che si sarebbe riconosciuto in questa genealogia, anche perché non aveva mai amato scuole e teorie e sapeva bene che spesso sono solo un altro nome che si dà alle mode. E se sbagliare è umano, seguire le mode è diabolico.
Il problema è che quando i maestri scompaiono, il vuoto è riempito da sedicenti allievi, seguaci, imitatori. Nel caso di Foucault, persino fedeli: non è un caso che David Halperin abbia scritto un libro intitolato San Foucault, tradotto di recente anche in italiano. E quando ci si mette di mezzo la fede, la discussione diventa difficile se non impossibile: si prende o si lascia. Alla fine succede sempre che gli oppositori se la prendono con i seguaci per prendersela col maestro, che in genere smettono di leggere. Le sue idee cominciano a circolare in modo confuso, se ne distorce il senso, gli si attribuiscono detti mai detti, pensieri mai pensati.
Per chi voglia confrontarsi direttamente con Foucault le occasioni non mancano, poiché si tratta di un fenomeno di rara tenuta nel mercato culturale. Le sue opere sono ancora tutte in catalogo e in questa prima metà dell’anno sono usciti in Italia già dieci libri suoi o su di lui (il doppio sono quelli usciti in Francia). Si va da un nuovo volume dei suoi corsi al prestigioso Collège de France (ai quali si sta dedicando Feltrinelli da diversi anni ormai) a un corso di Gilles Deleuze su Foucault; da l’invettiva di Jean Baudrillard Dimenticare Foucault a nuove antologie dei suoi scritti minori (l’integrale pubblicata da Gallimard, amorevolmente curata dal compagno di Foucault, Daniel Defert, conta quasi 3500 pagine: hai voglia trarne volumetti…). Con buona pace di Baudrillard, Foucault sarà ricordato ancora a lungo, anche quando i teorici queer lasceranno il passo ai teorici di qualche altra cosa. Perché i carri delle mode, prima o poi, si perdono ma i maestri, che vanno a piedi, arrivano più lontano.